Omelie

«Un vuoto di fuoco». Omelia del padre abate Bernardo per la Pentecoste

5 giugno 2022 – Pentecoste

 

Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

Omelia:

Fratelli e sorelle, mediante l’adorazione dello Spirito Santo -che oggi in modo più intenso e consapevole il compimento del tempo pasquale offre e dona come possibilità di qualificazione del nostro porci in contemplazione del glorioso mistero trinitario, anzi inserisce tutto di noi nel cuore stesso del mistero trinitario- è davvero la grande occasione attraverso la quale riposizioniamo tutta la nostra esperienza di fede, di ricerca del Signore, di fatto di insoddisfazione del nostro cuore e della nostra intelligenza ogni qual volta esse sono tentate di escludere il  mistero del divino dall’orizzonte della nostra esistenza.

Una insoddisfazione che lo Spirito Santo di fatto viene a trasfigurare in questa sete ardente di invisibile, in questa fame insaziabile di partecipazione e di compimento e di trasfigurazione della nostra esistenza, lasciando che questa inquietudine valichi tutto di noi e ci aiuti ad immergerci in quel vuoto, in quella cavità, in quell’assenza che caratterizza la possibilità stessa della fede.

La fede non si ha e non si avrebbe se non ci fosse questo vuoto, questo spazio, questa distanza, questa fessura che il Signore Gesù ha consapevolmente, volutamente generato, abbandonando i suoi discepoli, lasciandoli, sia chiaro, non al loro destino, cioè questo tipo di indifferenza del Signore Gesù, lasciandoli però in uno spazio che diventasse per loro e per noi lo spazio colmabile solo attraverso l’esperienza libera dell’amore, l’esperienza rischiosa dell’amore, l’esperienza creativa e sofferta dell’amore.

Un amore che come tale è propulsione che spinge ad attraversare il vuoto nella forma della ricerca, attraverso il desiderio di trovare un compimento per questa nostra insoddisfazione, insoddisfazione che noi avvertiamo imparentata con l’esclusione della possibilità dell’esistenza del divino entro e oltre i perimetri del nostro essere, una tentazione questa forte, persuasiva, affascinante, razionalmente seducente, non avendo di fatto in questo vuoto, in questa assenza, un campionario oggettivamente catalogabile degli indizi e delle tracce che Dio lascia di sé e che dunque, saggiamente collezionati, possono essere come un catalogo cui ricorrere quando ci manca una merce, un dettaglio, un qualcosa che possa essere immediatamente utile per colmare la nostra collezione, per saturare i nostri bisogni, per fermare la nostra ricerca.

Non è così del mistero di Dio.

L’amore davvero del Signore genera un vuoto che colma il nostro cuore, la nostra intelligenza, di una sofferta responsabilità che genera un accumulo, uno sforzo, di ricerca vorrei dire per tanti versi sempre più difficile e arduo in questo panorama culturale e sociale sempre più incline a fare della tecnologia il grande ricorso all’immediatezza del risultato, alla connessione digitale, il grande metodo con cui cancellare o quanto meno attutire ogni distanza col ricorso sempre più vario, promiscuo, proliferante di sistemi che colmino i nostri sensi di una consolante manifestazione di presenzialità: le videochiamate, le video conferenze, le molteplici piattaforme che ci hanno educato in tempi di pandemia, a vivere il remoto nella forma di una presenzialità virtuale, ispessendo questo senso di una certa calma tranquillità nel poter monitorare anche la distanza.

Ecco questo è un quadro, fratelli e sorelle carissimi, estremamente delicato da assumere come scenografia esistenziale e culturale dentro il quale sta il problema della fede rigorosamente riassunta come l’esperienza di amore necessaria e imprescindibile per vivere la sacramentalità del vuoto e dell’assenza come esperienza che generi la ricerca dell’assoluto.

Una ricerca che la vita nello Spirito suscita, dinamizza, rende possibile e che d’altra parte chiede a tutti noi, direi una vera e propria cultura della manutenzione della nostra vita spirituale, perché occorre fratelli e sorelle, ricordarci che, accanto ai sensi della nostra vita sensibile biologica, organica, esistono –ci insegna in modo particolare Origene ma non solo- i dispositivi dei nostri sensi spirituali, quelli che in qualche misura, per recuperare la grande e bellissima pagina paolina, sono quei sensi che ci permettono di regolare la nostra vita corporea perché l’intelligenza e l’inquietudine del nostro spirito non trovino facile riparo e soddisfazione esclusivamente nella sensorialità, il che significherebbe bloccare questa dinamica rischiosa in forza della quale sentiamo che vale la pena perderci nel vuoto, ha un suo senso riconoscere l’amabilità del Padre e del Figlio nell’assenza che hanno generato, perché si risvegli in noi questa possibilità di eccedere, di sconfinare, di uscire da noi stessi, proprio attraverso i sensi, nello spirito, attraverso cioè la riconquista di un’antropologia integrale potremmo dire, che non si accontenti della presenzialità, ma riconosca nella presenza una interpretazione forte del verbo essere, un esserci profondo, di coinvolgimento spaziale temporale tutt’altro che astrattamente metafisico, ma profondamente coinvolto con tutto quello che scaturisce dalla profondità  del nostro essere: le sue paure, le sue angosce, i suoi desideri, le sue gioie, non stiamo facendo come sembrerebbe a prima vista sterile filosofia, noi confusamente, in ascolto della parola del Signore, vorremmo interloquire con la vostra sofferenza, col vostro dolore, con le vostre perdite, con l’assenza che possiamo a nostra volta noi essere per altri che abbiamo deciso di abbandonare, con buone o meno buone ragione che, talvolta sedotti dal divisore, abbiamo addirittura tradito, dimenticato, contraddetto, vedete come il vuoto si generi e si possa generare per amore ma anche ovviamente per il contrario dell’amore.

E lo Spirito invocato dalla fede e nella fede oggi ci  è donato davvero per attraversare il vuoto della verticalità divina, ma anche le molteplici fratture generate da un vuoto a sua volta generato dal nostro io, dalla nostra non perseveranza, dalla nostra non fedeltà, dalla nostra non autenticità. Quanti cretti, quante smagliature, quante fessure!

Quanto si avverte il bisogno di un’energia coesiva che senza rimescolare e impastare in una generica e improvvisata novità possa in qualche modo riavvolgere il nastro dissonante della nostra storia. No. Noi abbiamo bisogno di riscoprirci nella singola personale autenticità di ciascuno di noi che si riposiziona l’uno accanto all’altro e tutti noi in questa esperienza di ritrovata comunione, di fraternità e di sororità davanti al padre, in una rigenerata figliolanza, attraverso la quale sentirci invitati a tornare a casa, a vivere questo vuoto come una dimora costruita dall’amore liberante del Padre celeste perché, facendo memoria della parola del Figlio, ne sentissimo la traccia viva che ispiri questo cammino di ritorno e di fatto anche questa possibilità di ritrovata correlazione delle nostre esistenze.

Lasciando che il vuoto cessi di essere maledizione e divisione, ma possibilità di integrazione e quindi complementarietà e arricchimento delle nostre vite e della nostra vita in Dio e della vita di Dio in noi, perché c’è anche questa mirabile reciprocità verticale, dall’alto verso il basso ovviamente, ma anche dal basso verso l’alto e il dono che Dio fa di sé stesso con la sua grazia come Spirito accolto dalla nostra fede, ma anche la possibilità data a noi -ci direbbero con il loro tipico coraggio i mistici- di arricchire Dio con la nostra povertà, di consolare Dio con la nostra obbedienza, di far compagnia al Signore col nostro cercarlo e finalmente trovarlo, dopo che Lui ha fatto visita a noi prendendo dimora, come ci dice il Vangelo di Giovanni, nell’intimo dei nostri cuori.

Ora queste possibilità fratelli e sorelle, sono davvero il mirabile dono dello Spirito Santo, una pneumatologia dicevo prima che chiede una cultura della manutenzione, che è tutto il contrario di questa nostra cultura della simultaneità, della iperconnettività e vorrei anche dire di questa modalità con la quale  si baloccano oggi i nostri giovani e giovanissimi, dispositivi elettronici che quando non funzionano hanno un tasto fatato con il quale loro si giocano una volta per tutte la possibilità di continuare ad usare o meno quel loro accessorio digitale, è il tasto del reset.

Se dopo il reset l’apparecchio funziona ancora, è fatta, lo possiamo tenere se invece non parte più è da cestinare.

Guardate fratelli e sorelle che questa modalità che noi crediamo di dominare con la nostra libertà, in realtà gradualmente si insinua nelle nostre fibre, nella nostra consapevolezza antropologica ed è lei a dominare noi, è lei a condizionare noi, non noi lei.

Per cui se ancora posso ricordare che da bambino se si rompeva il balocco qualche sforzo lo facevo, magari aiutato dal babbo, tornare a far funzionare la macchinina, il trenino, qualsiasi altro gioco meccanico, oggi nella mia individualità l’unico interlocutore è quel tasto reset da cui dipende o meno la sopravvivenza di quell’oggetto e il suo destino e in questa prospettiva sparisce la cultura della manutenzione, della responsabilità, della condivisione di altre e diverse competenze, dell’apertura umile del  nostro cuore a chi ne sa più di noi.

Questa cultura della manutenzione vale anche per la pneumatologia fratelli e sorelle, e voi dimostrate con la vostra perseveranza direi post natalizia e post pasquale che non può bastare -e non è poco sia chiaro di questi tempi- ma non può bastare un’unica celebrazione o due all’anno per sentirci rassicurati in quel principio di non esclusione del divino di cui parlavamo prima, noi sentiamo invece che abbiamo bisogno, domenica dopo domenica, che qualcuno metta le mani nel nostro cuore, che lo Spirito Santo diventi l’espressione della manutenzione che Dio intende esercitare della nostra vita, del nostro cuore, delle nostre sensorialità spirituali, delle molteplici e multiverse possibilità del nostro linguaggio, di essere come può essere, come deve essere, parola giusta e comprensibile per tutti, Parti, Medi, i Proseliti di altre regioni che come avete ascoltato attraverso quel fuoco irradiante e quella parola davvero cattolica, cioè universale, hanno la consapevolezza di poter comprendere quelle sillabe che, riportate all’elementarietà e l’essenzialità della loro verità, aprono i cuori, liberano l’intelligenza e permettono di condividere quei percorsi di umiltà, ma anche di coraggio che lo Spirito suscita per attraversare il vuoto, attraversare l’assenza e, sentendoci amati e interpellati tentare l’approdo oltre quel vuoto, oltre quella assenza e scoprire che di là in realtà c’è quel Signore che ha immediatamente preso posto nel nostro cuore, sbilanciatosi verso quell’audace investigazione, di modo che non ci sia in realtà mai vero vuoto dentro di noi, perché il vuoto che noi generiamo, uscendo da noi stessi, lo Spirito subito lo colma, ricordandoci la parola del Figlio, ricordandoci quanto siamo amati, perdonati, quanto siamo misteriosamente sostenuti in questa tensione purché la tensione la desideriamo, la cerchiamo, perché non ci accontentiamo di spiaccicarci in questa nostra autopresenzialità, rassicurata dal ristretto riscontro delle nostre in realtà effimere sensorialità, senza nulla togliere ovviamente a quanto ci donano i sensi -non è questo l’aspetto problematico- in termini di bellezza, di gioia, di passione, di letizia, non stiamo astrattamente formulando una vita che faccia della fede in Cristo incarnato e risorto un abbandono della nostra vita fisica, nulla di tutto questo, siamo qui però a ricordarci, come ci ricorda oggi la parola, la necessita di una antropologia integrale, di un’assunzione piena, consapevole di tutte le potenzialità del nostro esserci, ivi compreso la libertà del rischio con la quale affrontare il vuoto, esercitandoci e lasciandoci esercitare dal Signore al sentirci amati, nonostante le prove grandi, grandissime, della vita.

Dunque a fare davvero della memoria apparentemente astratta, ma in realtà ben concreta, se solo lo vogliamo, quel catalogo che non deve diventare un repertorio di pezzi e di oggetti pronti al mio uso, ma diventa davvero l’esperienza ardente nella quale risuona, pur nell’invisibilità della memoria, il calore della parola di Cristo, il suo nutrirci, il suo parlarci, il suo amarci, il suo consumarsi per noi, ecco perché abbiamo bisogno di una cultura settimane, per non dire quotidiana, della manutenzione dello Spirito attraverso una nostra pur vaga fedeltà alla sua fedeltà, il nostro ascolto al suo ascolto, il nostro parlargli con la sua parola e via di seguito.

Si conclude evocando questa dimensione bellissima di una verticalità dello Spirito attraverso l’immagine del fuoco, dunque di una presenza misteriosa che non puoi toccare pena l’ustione, ma che senti necessaria per diradare le tenebre, per donarti, come solo il fuoco riesce a donarti, un senso di presenza crepitante, distruttiva per tanti versi certamente, ma anche capace di scaldare, di trasformare quello che poi diventerà gradevole cibo nel nostro piatto per darci la sensazione di una presenza costantemente cangiante e proprio per questo mirabilmente capace di sedurci.

Il fuoco, non il fuoco che Prometeo ha catturato con la stessa voracità rapace, seduttiva, presuntuosa di Adamo e di Eva col frutto dell’Eden, ma il fuoco che discende dall’alto, che ci viene donato, che ci viene consegnato come mirabile compromesso di un Dio che trasfigura questo suo consegnarsi responsabilizzante in quello che trasforma, con l’amore, il compromesso in promessa.

Ci sia questa tensione fratelli e sorelle, in tutti noi, scaldati da questo amore finalmente riscoperto dalla manutenzione che la liturgia attua per le nostre vite, questo fuoco apra tutti noi e le nostre nuove, nuovissime generazioni al futuro, apra tutti noi l’uno verso l’altro, riapra ciascuno di noi all’intrepida incontenibile avventura che vede le nostre prue orientate, anche controvento, sulla rotta del vuoto per giungere all’abbraccio del Padre. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

L’immagine è una fotografia di Antonio Parrinello e ritrae il vulcano Etna durante l’eruzione del febbraio 2017

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