Omelie

«Sull’altare della terra, sotto la volta del cielo, per un sacerdozio di amore e compassione». Omelia del padre abate Bernardo per la XXIX Domenica del Tempo Ordinario

 «Sull’altare della terra, sotto la volta del cielo, per un sacerdozio di amore e compassione». Omelia del padre abate Bernardo per la XXIX Domenica del Tempo Ordinario

 21 ottobre 2018

 

Dal libro del profeta Isaìa
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.

 

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, oggi la parola del Signore ci consegna direi anzitutto un’interpretazione della sofferenza e del dolore. Un’interpretazione dell’oscurità, un’interpretazione di ogni angustia, che ci viene riconsegnata ad una consapevolezza che maturi in un fermento di fede, di speranza e di amore per qualificarsi molto di più che disdetta, sfortuna, imprevisto, ma che appaia direi davvero finalmente al nostro cuore, al nostro sguardo come un tratto direi insuperabile della nostra creaturalità.

Un tratto che certamente viviamo come minaccia, come oppressione, come angoscia nella sua imprevedibilità, anche se in realtà un pensiero fermo, limpido e dignitoso sulla nostra condizione umana non può non pensare a come essa, avventurandosi nel tempo sia per necessità intrinseca oggetto, quanto meno di una consunzione irreparabile, la vecchiaia, che porta con sé un orologio quantitiva che misura donando i nostri minuti a questo sgretolarsi progressivo della nostra consistenza personale. Quindi già uno sguardo lucido su questo nostro essere nel tempo, dovrebbe consegnarci ad una inevitabile riflessione di questo limite che oggi invece il Vangelo e queste brevi ma intense e meravigliose parole che lo corredano, ci offre come parola che voglio anzitutto sottolineare nella sua dimensione celestiale.

In questo luogo è particolarmente propizio misurare quanto nella penombra dell’oscurità torni ad essere desiderabile il cielo, forse anche questa è una poetica del romanico, di un’estetica di un luogo che al di là della artificiosità delle nostre pur belle luci effettivamente è fatto apposta per restituire all’uomo la vocazione, la consapevolezza di una vocazione, si diceva all’inizio di questa celebrazione, sponsale, uno sposalizio che non può che essere celebrato nella vastità infinita del cielo perché è lì che risiede il nostro sposo, è lì che ci attende il nostro sposo e da lì che torna il nostro sposo, in una esperienza di desiderabilità della nostra vita proprio perché desiderata da quel qualcuno che non ha esitato a farsi servo della nostra vita, assumendo questo tratto di radicale fedeltà, immedesimazione, consumazione, che sono modalità lessicali per ridire i termini forti che nel Vangelo tratteggiano il mistero pasquale: Battesimo, immersione appunto, bere fino in fondo un calice, che significa ancora una volta, attraverso il registro fecondo ed espressivo della corporeità, come da vero sposo il Signore Gesù sia qui per abbracciare la nostra vita, più ancora per farsi carne della nostra carne e dunque una prospettiva che schiuda a questa nostra creaturalità, drammaticamente esposta a quel niente che il tempo progressivamente induce a accogliere come una necessità fatale, trasfigurando tutto questo in un grande gesto di libertà, in una grande esperienza di liberazione, in una grande esperienza di volontà, di scelta, andare incontro allo sposo, vegliare per attendere lo sposo, sapendo della sua affidabilità, sapendo che questa nostra parzialità è fatta per essere adempiuta, abbracciata, circondata dall’infinito di Dio che in Cristo si fa servo della nostra vita.

Questa dimensione, fratelli e sorelle, ridice tantissimo anzi, rinnova, sovverte anzi, tutta una dimensione del sacro, del numinoso che, non diversamente dallo sguardo politico che il Vangelo di oggi ci invita a riscoprire, è in bocca, nel cuore, nei gesti di Gesù davvero novità inaudita perché effettivamente non era solo dei capi delle nazioni di quel tempo, vogliamo per un attimo pensare che oggi questa pagina di Vangelo abbia ispirato una modalità diversa di essere capo di uno stato, una modalità per l’appunto ministeriale e di servizio, forse davvero non poteva essere così ai tempi del Signore Gesù, la vicenda di Erode ce lo dimostra, ma molto prossima a questa modalità di potere disumanizzante è anche il doversi sentire chiamati a gestire questa fragilità dell’umano e a farlo rivestendosi, più o meno arbitrariamente, dei panni di una regalità sacerdotale con la quale e per la quale una larga fetta dell’umanità affida a qualcuno il compito, serio, austero, davvero sommo, di proteggere la vita di tutti dalle incursioni del male.

Un compito sacerdotale che ha reso, e talvolta rende ancora, degli uomini dei pontefici, cioè dei ponti affidabili fra cielo e terra, fra bene e male, perché quel ponte interrompa la circolarità pervasiva del male.

Il tutto attraverso una dinamica che enfatizzi nello stesso tempo un’ambizione, nello stesso tempo una fragilità, nello stesso tempo un fraintendimento del mistero che si traduce sempre in un drammatico, pericoloso, esercizio di potenza. Una potenza sacrificale per la quale nella abilità, nella qualità della sua supposta, come dire, presunzione di essere in grado di fermare il male, mi carico inevitabilmente di una sacralità che è intuita come l’unica forza possibile per rallentare quest’onda di male che minaccia la mia vita.

E si entra in una logica dove più che qualità è la quantità del sacrificio a rendere il più possibile impermeabile la mia esistenza a quel male minaccioso, ma è una prospettiva che muore di fronte a quello che il Signore Gesù intende raccontarci del mistero di Dio, un Dio amore, un Dio che non minaccia l’uomo, un Dio che si fa uomo per fermare quello che è il limite della creaturalità quando può rovesciarsi addosso alla creaturalità stessa, ed ecco perché la lettera agli Ebrei e tanti testi della divina parola effettivamente usano abbondantemente il lessico sacrificale, ma attenzione, con questa novità fondamentale che oggi la lettera agli Ebrei mostra in un modo davvero chiarissimo, noi abbiamo sì un sommo sacerdote grande però, attenzione, egli ha saputo prendere parte alle nostre debolezze, ed è proprio questo il messaggio di questa lettera, noi possiamo accostarci con piena fiducia al trono della grazia, quindi un sacerdote credibile, non perché si è rivestito di una corazza smaltata e luccicante che poteva attestare o doveva attestare una sua sacralità imperturbabile, capace proprio per questo di allontanare il male, ma tutto diversamente, un Gesù che ha preso su di sé quel male per servire l’umanità, spogliandosi progressivamente di qualsiasi mediazione fino a diventare, come sapete bene, lui stesso il tempio, lui stesso l’altare, lui stesso la vita, lui stesso il sacerdote, e comprendete che con questo chiarimento, con questa premessa fondamentale, tutte queste qualificazioni non sono scelte dal Signore Gesù per enfatizzare la sua persona ma, al contrario, per farci intendere come su quel corpo piegato, trafitto sulla croce si appoggi davvero tutta la sofferenza del mondo, tutto il peso del mondo in una ritrovata assialità che misteriosamente non si schianta, come non si schianta la croce e per la forza di un amore che il Signore non cessa un istante di invocare, un Padre che contempla, in quella disponibilità servizievole del Signore Gesù a farsi carico del peso della sofferenza umana, un ritrovato dialogo che Adamo aveva interrotto fra cielo e terra, fra limite dell’uomo e grandezza dell’amore del Padre, fra la necessità della nostra condizione umana di riscoprirsi nella figliolanza, e con la figliolanza, inevitabilmente bisognosa e desiderante di un abbraccio che viene dall’alto e questa attenzione paziente per la quale e con la quale il Padre ci dona il Figlio perché sia sposo di questa nostra incompiuta metà, in un abbraccio che restituisca consapevolezza di vocazione, di missione, di adempimento, di significato pieno al nostro vivere, a quella metà che si sente effettivamente segnata da una forza inarrestabile che ci fa ripugnare dell’idea stessa della morte e a quell’altra metà che invece nel patisce già gli effetti anche appena nati.

E allora fratelli e sorelle, si comprende benissimo perché Giacomo e Giovanni sono trattati in quel modo dal Signore Gesù, perché alberga nel loro cuore quello che talvolta alberga anche nel nostro cuore, l’idea che assimilarsi al maestro significhi entrare in una logica di potere, di possibilità, di sicurezza, di assicurazione, in una riuscita della mia impresa titanica e invece no, niente di tutto questo, come con se stesso anche con loro il Signore Gesù educa ad uno sguardo ulteriore, io non so, non posso sapere se sarete alla mia destra o alla sinistra. Perché dice questo? Per educare loro, noi, ma vorrei dire anche se stesso in questa pedagogia filiale che è uno dei grandi temi del Vangelo di Marco, per educarci cioè a saper attendere, a saper desiderare, in una prospettiva di fiducia, che questi due come dire disarmanti apprendisti del sacro non vogliono capire. Ed ecco perché questo fondamentale, risolutivo, esplicito appello ad una dimensione servizievole, anche di quella sacralità che il servo sofferente di Isaia sulla sua pelle abbiamo imparato a leggere, confidando cioè in un Dio che non si compiace di un soffrire gratuito senza significato, senza senso, ma si compiace di chi, come quel servo, immediatamente impara ad associare nella propria fragilità, nel proprio dolore, nel proprio fallimento, la vicenda dell’intera famiglia umana, scoprendo cioè una dimensione interpersonale con la quale il Signore Gesù ci invita davvero a prendere la nostra croce, per tracciare tutta la storia di percorsi pasquali in ascolto dell’altro, della sofferenza dell’altro, facendomi, io servo, servo della vita altrui.

Ecco, è una prospettiva certamente difficile, sofferta, ma come io penso intuiate, capace si diceva prima di liberare cuori e intelligenza, di restituire vera vocazione ai nostri giorni, di inaugurare una possibilità nuova e inedita di vivere il Vangelo, devo dirlo, anche al di là delle mediazioni clericali e sacramentali che sono per noi naturalmente necessarie e vitali per alimentare tutto questo ma attenzione, in questa prospettiva autenticamente umana e divina il Signore Gesù sembra lasciarci dire come ognuno, qualsiasi tempo, qualsiasi luogo, che riscopra quanto il suo cuore sia fatto per amore può, e deve, diventare sacerdote di una alleanza nuova che trasformi questa nostra insanguinata storia in questa nostra contorta terra nell’altare più bello mai costruito sotto l’infinito del suo cielo, nella volta più luminosa mai apparsa nei giorni del mondo. Amen

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

 

 

 

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