Omelie

«Sillabe e gesti nutrienti di luce infinita. Di Domenica e di nuovo insieme nell’eucaristia, ma perché?». Omelia del padre abate Bernardo per la III Domenica del Tempo Ordinario

 

23 gennaio 2022 – III Domenica del Tempo Ordinario

 

Dal libro di Neemìa
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

 

Dal Vangelo secondo Luca
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle a voi che siete illustri non meno di Teofilo, non sarà sfuggito come la proclamazione del Vangelo abbia creato all’immaginazione  del vostro cuore una sorta di scenario dove si è messa in scena di fatto, la dinamica performativa che stiamo vivendo anche noi oggi.

E davvero sembra, cercando come un filo rosso che dalla penombra luminosa della grotta di Betlemme ci conduce sin qui, sembra che la liturgia della parola oggi intenda qualificare e rassicurarci di una continuità storica, oggettiva, esistenziale che attraverso la dinamica performativa coinvolge la nostra esistenza, il nostro esserci, qui, ora, oggi, da quella aurora di luce con la quale la notte di Betlemme trova il suo compimento, la dinamica autorivelativa del mistero di Dio, ed è proprio il suo rivelarsi che costituisce la ragone del nostro essere qui, cercando di vivere consapevolmente la nostra partecipazione a quella rivelazione entro la cornice esistenziale dove il Signore ha scelto di manifestarsi, che è la nostra stessa storia, i nostri stessi spazi, fratelli e sorelle, lo svolgimento di quel ritmo del tempo che noi misuriamo con ostinazione, accogliendolo, il più delle volte subendolo, ma almeno la domenica liberandolo in tutta la sua pregnanza di libertà, di novità che è il ritmo settimanale, quel misterioso crinale fatto di fine e di inizio che è la santa domenica, proprio oggi, noi, obbedendo a quel ritmo, riconoscendo la verace fecondità di quella cornice esistenziale, siamo qui per vivere esattamente quello che hanno vissuto, innumerevoli secoli fa, coloro che hanno fissato lo sguardo sul leggìo posto in alto da dove era più semplice, più coinvolgente, ascoltare Esdra e la sua parola la quale, proclamava con forza l’antica legge di Israele e facendo non di quella parola, ma della lettura di quella parola -questo è molto importante fratelli e sorelle- non quella parola, ma la lettura di quella parola, una esperienza per l’appunto performativa che coinvolgendo tutto di loro e di noi, generasse la consapevolezza di un momento qualificabile come nuovo per la sua forza feconda di storia, di libertà, di consapevolezza, con la quale sentire che un intero popolo non prestava fede in un mito credibile e proprio per la sua dissolvenza nelle nebbie metastoriche e quindi leggendario e quindi senz’altro evocativo di una dimensione fascinosa, tanto suggestiva quanto irreale, e dunque in questo scenario onirico trovare una sorta di artificiosa fuga dalla realtà.

Non è così la prospettiva nella quale ostinatamente il popolo di Israele prova ogni volta  a mettersi in ascolto di un qualcuno che proclamandogli la parola del Signore gli consegna tutti i dispositivi in forza dei quali riconoscerci in uno scenario reso nuovo dalla disponibilità dei nostri cuori ad ascoltare e ad essere rinnovati da quel momento che se conosce, come conosce, una sua ritualità è solo e soltanto per marcare la forza costantemente generativa di novità di un tempo altrimenti logoro, altrimenti insignificante, altrimenti consunto. Ed è bellissimo fratelli e sorelle notare la paradossalità di questo meccanismo sublime  che stiamo vivendo insieme, proprio per accorgerci della novità della forza generativa cui essa stessa si sottopone per apparire ai nostri occhi, non importa se non abbiamo  il raggio pieno di luce, a noi  basta un modesto spessore di luce che interrompe le tenebre della notte, il meccanismo funziona così fratelli e sorelle nella sua paradossalità, ripete i gesti, la ritualità apparentemente ossessiva, sterile, formale, esecutiva della liturgia, sono i soliti gesti, domenica dopo domenica, che ci sottopongono alla critica di tante persone che frettolosamente liquidano quello che noi stiamo facendo, con grande sapienza, come l’obbedienza a meccanismi sterili, formali, che nulla aggiungono alla immediatezza del nostro cuore, alla sua spontaneità, come si dice con  gergo banalmente neoromantico.

Noi invece abbiamo esattamente bisogno della ritualità, della ripetitività, perché proprio attraverso questa obbedienza a gesti, peraltro antichissimi come avete ascoltato, noi possiamo accorgerci come su quel piano della ripetitività sorga, se siamo davvero disponibili ad ascoltare con intelligenza, ad affiggere le nostre pupille sulla presenza reale del Signore Gesù, eccome se sorge la novità, fratelli e sorelle, con la sua carica di responsabilità, prima ancora di discernimento e prima ancora di disciplina. Certo la scorciatoia più seducente è quella del potercela fare da soli, come un titano genera da solo miticamente i propri spazi, la propria storia, la propria realtà consegnandosi di fatto ad una individualità che lo pone sugli altri come un eroe mitico, irraggiungibile che potrà raggiungere in una qualche misura il fuoco sacro. E noi altri che facciamo?  La notte di Natale, fratelli e sorelle,  per restare nel cuore del tema, ci ha insegnato -se non l’abbiamo frettolosamente dimenticato riposti i presepi- che l’interpretazione della realtà per noi è una interpretazione ostinatamente amorosa, perché generata dall’amore, non possiamo perdere di vista questo specifico della rivelazione che Dio dà di sé attraverso la forma umiliante e sconcertante della nascita dell’unigenito suo Figlio, nel fango della grotta di Betlemme.

Proprio quel fango, proprio quell’oscurità, proprio quella tragica ripetitività di storie infami di bambini abbandonati, di famiglie disagiate, di persone ferite dalla storia, quella ripetitività lì,  illuminata dall’amore che ci ha mostrato una modestissima per quantità linea di luce che in quella profonda oscurità ha la qualità, fratelli e sorelle,  di un’alba invincibile di luce, di significato, di senso, di speranza con la quale adoperarci per un’altra interpretazione della realtà, tutta amorosa.

E non possiamo permetterci di perdere neanche per un millimetro questa risonanza costante che scaturisce, come un’onda di luce, flebile, ma ritmicamente fedele a sé stessa e dunque a noi, che siamo gli amati, e restando sintonizzati con quest’onda ecco che, faticosamente sia chiaro, messi duramente alla prova lungo il crinale accidentato della fede non-fede che ci disponiamo, ascoltando e fissando lo sguardo sul  Cristo a riconoscere un passaggio dalle nostre mille e mille diaspore,  dispersioni, esili, fallimenti, tutto quello che rappresenta di fatto oggi poi, culturalmente e socialmente macroscopico la decostruzione delle nostre tessiture relazionali, interiori, psicologiche, chi più ne ha ne metta. Coglievamo la notte di Natale, perdonatemi l’autocitazione, nell’irrompere, per molti di noi almeno per me, imprevisto della variante omicron che resterà in qualche modo alla storia della storia del covid come diciamo la moltiplicazione incontenibile di questo sgretolarsi massivo delle nostre relazioni e della nostra capacità di relazione, coglievamo come proprio in quell’insorgere dell’omicron nella notte di Natale risuonasse ancora più paradossalmente consolante la grande relazione che si stabilisce, nel segno della luce, fra la finitezza e l’infinito, fra la dispersione e l’unità, generata da un amore che si compendia nel piccolo corpo di un bambino, manifestazione visibile della parola udita prima dall’antico Israele come interpretazione della sapienza con cui il Padre aveva costruito il cosmo e vi aveva condotto a piena libertà il più piccolo dei popoli che lo abitava.

Quindi fratelli e sorelle, addestriamoci in questa disciplina, in questa fedeltà, voi ne siete.. -il tono appassionato proprio per dirvi grazie- perché voi siete davvero come Teofilo, illustre, questa vostra perseveranza, sfidate peraltro il ghiaccio di questa Basilica pur di non allontanare, anzitutto i vostri corpi, non mi stancherò mai di dirvelo, Paolo oggi lo ha detto con grande chiarezza, i vostri corpi da questa esperienza performativa, coesiva, che è una vera e propria -lo direi in francese ma vi farei ridere- messa in scena, una parola davvero del lessico teatrale dove tutti noi recitiamo una parte, non c’è soltanto il prete, anche se io so di essere un po’ primadonna e quindi urlo e faccio un sacco di movimenti, loro poverini mi sopportano dalla mattina alla sera, un giorno scriveranno a La Nazione, oscurate Padre Bernardo, non la facciata di San Miniato!

Ma in realtà devo dirvi che ognuno di noi qui ha un ruolo fondamentale e insostituibile, c’è colui che per mille ragioni davvero, non squalifico il Vangelo, anche scenico, vi rappresenta il Cristo cioè colui che di fatto riceve un rotolo di una antica parola di libertà, di speranza, logorato se non addirittura tradito dalla storia ma che in quella lettura dove presiede, come qui, lo Spirito Santo diventa la possibilità di un oggi che compie quelle antiche attese, le rende performativamente celebrabili, riconoscibili, gustabili. Come? Nel nostro amarci, fratelli e sorelle, questo è l’essenziale della vita della Chiesa e direi essenziale della vita e della simbolica liturgica della Chiesa: noi ci cibiamo dell’unico pane, beviamo, quando mai sarà possibile, all’unico calice, per diventare -quante volte ve lo avrò detto- un solo corpo col Signore Gesù. Ascoltiamo la stessa parola, subite la stessa interpretazione, perché questa parola, ascoltata insieme, plasma, propizia, dinamizza una unità di amore con la quale, sentendoci amati, possiamo essere giù in città, vettori di luce, testimoni dell’alleanza, possibilità di futuro.

E quindi vedete che tutti noi se siamo qui, peraltro senza pagare biglietto, perché questa è festa è di gratuita, di libertà, dove gli ultimi sono invitati a diventare il centro come è successo a Gesù nella notte  di Betlemme. Il codice simbolico del Natale  continua ad essere ispiratore che dà senso ora e qui a tutto il nostro agire, prima di tutto liturgico e poi, da questa dimensione simbolica e reale, a tutto quello che faremo uscendo da qui.

Questa è prospettiva fratelli e sorelle che ha tutta la grazia direbbe Cristina Campo dell’inattualità, cioè di qualcosa che non è molto capita oggi per tante ragioni che non giudichiamo, tanto meno valutiamo moralisticamente, perché le culture cambiano, i loro codici, le loro priorità, questo intreccio misteriosissimo, insondabile, fatto di storie e di corpi che si incontrano, di culture che si scontrano, di mentalità che cambiano, possono rendere anche inattuale un’esperienza di fede che invece, come oggi e oggi più che mai, si compendia, si illumina, si qualifica nella parola, oggi, e dunque in una attualità che invece è inattuale. Questo rende secondo me ancora più intrigante il nostro essere qui, così come rende l’inattualità dell’inattualità monastica ancora più, secondo me, appetibile e necessaria in una Chiesa che altrimenti corre il rischio di diventare niente di più che una  cintura di trasmissione di pragmatismi finalizzati a cose belle buone e giuste,  ma senza più quella sorta di necessario ristagno e fermento del mistero di cui è simbolo la apparente oziosità e inutilità della vita monastica.

Ma anche voi siete in questa dinamica qui fratelli e sorelle, anche voi vi sentirete dire chissà quante volte: “ma che ci andate a fare alla Messa?

Dove magari trovate un prete che fa quello o fa quest’altro etc etc

Voi tacete. O meglio, dite qualcosa, ma non vi date troppa pena, lo Spirito Santo, ce lo assicura il Signore Gesù, darà e dà una consistenza al vostro esserci, tale che le persone alla fine scorgendo nella vostra calma, nella vostra pace, nella vostra umiltà, nella vostra sapienza, un riverbero della luce della grotta di Betlemme, e allora forse capiranno e se capiranno saranno con noi  a riconoscere necessaria e insostituibile questa grazia che trasforma la nostra diaspora settimanale in una meraviglioso momento di unità, di pace e di amore, dove è bello ascoltare e più ancora è bellissimo essere nutriti dall’unico pane e dall’unico calice, disponibili poi , uscendo dalla nostra San Miniato, a «mandarne porzioni a quelli che nulla hanno di preparato», come Neemìa ci ha chiesto con vivo vigore di festa e di speranza. Amen!

 

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia, scattata da Detlef Reich, ritrae la nuova sinagoga di Magonza (MANUEL HERZ ARCHITECTS)

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