Omelie

«Polvere di cenere, polvere di cemento, polvere di spari». Tre omelie del padre abate Bernardo in una quaresima di guerra, di terremoti e d’incoscienza

 

19 Febbraio 2023 – VII domenica del tempo ordinario (A)

Dal libro del Levìtico
Il Signore parlò a Mosè e disse:
«Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo.
Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui.
Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani».
Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, se da un lato ci scuote questa esplicita consegna alla nostra responsabilità di tutta la realtà e di tutte le esperienze della nostra vita, che si riassumono in queste fortissime parole di Paolo: “il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro!” e questa assunzione di responsabilità non può non scuotere la nostra coscienza, il nostro cuore nella consapevolezza della sua fragilità, e d’altra parte nella altissima e perturbante avvertenza di come sia sfida estrema per quel nostro piccolo cuore, assumersi una realtà crettata dalla guerra, dal sisma, figura quest’ultimo quasi simbolica di uno sgretolarsi delle nostre consistenze e delle nostre certezze e dunque sentirci dire dalla parola del Signore che tutto il nostro vita, morte, presente, futuro, in una parola la vicenda temporale, è davvero parola che ci riposiziona nel cuore di quella coscienza umanistica che non vogliamo eludere, non vogliamo demandare a chicchessia, tantomeno alla tecnologia nella sua pretesa di sostituirsi alla nostra coscienza umana in quelli che variamente si definiscono post umanesimi, trans umanesimi, esperienze dove la centralità della consapevolezza umana e la stessa consapevolezza antropologica, vengono surclassate dal frutto si direbbe più maturo della nostra intelligenza umana, ovvero l’intelligenza artificiale che, nel piano astratto delle sicurezze proprie del laboratorio, pare potersi incaricare di condurci verso un futuro al riparo da ogni sventura, da ogni imprevisto, da ogni sorpresa.

Ma noi fratelli e sorelle, siamo qui in questo luogo, direi per l’intelligente intuizione che quella elusione, cioè la consegna della libertà e della consapevolezza della nostra coscienza ad una macchina, anche se raffinatissima, significherebbe vedere sgretolata questa straordinaria fiducia che il Signore ripone nella condizione umana che non dobbiamo mai dimenticarci essere la summa di tutto il suo intento e laborioso disegno creativo, culminante proprio nell’uomo di fronte al quale Dio dice in Genesi “Tov Tov”, veramente bello, bellissimo è questo mio capolavoro che siamo noi, che diventa nella sua pienezza creaturale, mediante l’incarnazione di Cristo, niente di meno che tempio dello Spirito, ci ha detto Paolo, una immagine bellissima che noi siamo forse ancora abituati a ricordarci nel momento del commiato estremo quando si giustifica l’incensazione del corpo senza vita dei nostri defunti, proprio perché essendo tempio dello Spirito pare meritare questo omaggio estremo, quasi paradossale, profumare un cadavere, che senso mai potrebbe avere? Questa parola oggi invece risuona nella coscienza della nostra vivida consapevolezza di essere creature esistenti, libere, autodeterminate, e allora fratelli e sorelle recuperiamo fino in fondo questo essere tempio dello Spirito Santo, essere il vertice della creazione, la sommità delle aspettative che Dio ripone nella nostra libertà. Ma d’altra parte non siamo qui certamente per ubriacarci di deliri di onnipotenza, la liturgia è questa mirabile scuola dialettica che se da un lato solleva la nostra coscienza, solleva i nostri cuori, slancia verticalmente le nostre fiacche aspettative, trasformandole in ardenti desideri, questa parola ci ricorda anche una dimensione che disegnerei e designerei come una risultanza quasi conica, un cono di luce, dove c’è questa nostra consapevolezza antropologica che risplende nella sua autopercezione di sentirsi, per grazia, tempio dello Spirito Santo, insisto su questa immagine e sono anche lieto di dirvi queste parole mentre risuona la grande campana di questa Basilica millenaria, essere tempio, lo vedete cosa significa , significa essere bellezza, essere relazione, essere armonia, essere ascolto cioè spazio vuoto dove può trovare dimora la parola, dove può trovare dimora la luce, dove può trovare dimora la sapienza, essere tempio significa essere davvero come queste pietre l’una congiunta all’altra, in una dimensione interpersonale nella quale e dalla quale nulla puoi togliere pena la distruzione di quel tempio.

E allora fratelli e sorelle è bellissimo che questo nostro edificio organico, spirituale, interpersonale, intercorporeo, abbia la possibilità di riconoscersi, attraverso il dono della parola di Dio che noi prontamente ascoltiamo in questo laboratorio di ascolto, per questo per noi è essenziale la celebrazione eucaristica, chi di noi, domando chi di noi, può fare a meno di essere rieducato puntualmente domenica dopo domenica da questa parola che è forma di Cristo, che agisce sul caos della nostra confusa e contraddittoria interiorità psicologica, allora scende questa parola che è forma e che ci dice una cosa meravigliosa, uno dei vertici dinamici della rivelazione della parola di Dio che vi consegno perché lo riportiate a casa integralmente, una grande proposizione avversativa, Paolo ci ha detto che tutto è nostro, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, sta disegnando una sorta di ologramma dove c’è tutta la nostra realtà, c’è tutto il nostro essere tempio vivente che affronta gli spazi, affronta i minuti, ma su questa autocoscienza si situa la possibilità di scorgere su dii noi, sopra di noi un cono di luce: “voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”, anzi, diciamolo in tutto il suo andamento avversativo, “ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”.

In altre parole, non vi spaventi l’assunzione libera e responsabile di tutta la realtà, non delegatela alle macchine, non depotenziatela con post o trans umanesimi che sollevino e dispensino la vostra intelligenza dall’avventura della vita e del mistero, assumeteli integralmente, ma nello stesso tempo sappiate che questo tempio è bello perché riceve la luce che il sole fa entrare attraverso le sue poche ma qualificanti fessure che sono le finestre orientate verso l’aurora, cioè verso il momento in cui il sole spezza finalmente l’oscurità della notte, e quando si congeda dalla nostra giornata, gli ultimi raggi entrano a illuminare il volto del Cristo Pantocratore che trionfa perennemente come alfa e omega, principio e fine, su questa ruota del tempo di modo che l’oscurità più non ci spaventa.

E allora in questa prospettiva, fratelli e sorelle, sentiamo che il nostro essere tempio di cui questa Basilica è soltanto simbolo, si posiziona sotto Cristo, e Cristo stesso si sottopone -qui Paolo è lucidissimo- sotto di lui.

Una dimensione davvero conica, mirabilmente conica, che Paolo quasi si espone, assumendone tutti i rischi, a quella che dal nostro punto di vista trinitario, relazionale, sembra quasi la seducente scorciatoia della grande filosofia classica greca, platonica, l’uno da cui tutto deriva, un movimento anche geometricamente riconoscibile come la possibilità di scorgere nella molteplicità, sempre e comunque la sorgente da cui tutto viene, sorgente che è la perfezione dell’unità.

Per noi non è così fratelli e sorelle, noi siamo costantemente smossi, direi proprio così, dalle relazioni trinitarie, Padre, Figlio e Spirito Santo che disegnano una danza, diranno i padri orientali, quindi generano uno spazio che è armonia e molteplicità dell’uno e del diverso insieme, quindi siamo storditi di fronte a questo mistero, ma oggi anche rassicurati, perché su Cristo sta Dio, il Padre sorgente e compimento di ogni cosa e questa dimensione conica che può sembrare astrazione teologicamente geometrica e inessenziale alla nostra vita fratelli e sorelle, è l’ennesima tortura da meningite che Padre Bernardo vi infligge a metà mattinata, io penso si restituisca alla vostra coscienza pratica, etica, morale, esistenziale come si suole dire, cioè quello che a noi interessa cosa fare di questa vita, come comportarci? Con quale bussola orientare i nostri desideri? Vincere le nostre paure, uscire dal deserto delle nostre angosce, dei nostri risentimenti, delle nostre rivendicazioni, perché questo alla fine ci interessa, la filosofia può essere una bellissima cosa, è una bellissima cosa, ma a noi serve il giusto, diciamo proprio con molta franchezza senza banalizzare la questione, ma voi applicate l’immagine che la mia mente scombinata ha forgiato per voi e portatela qua nel cuore del Vangelo: Egli dice –Gesù- di amare i nostri nemici, di pregare per quelli che ci perseguitano, “affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.

Vedete come la geometria diventa vita fratelli  e sorelle, noi non possiamo pretendere con le nostre forze, con le nostre buone intenzioni, ma direi di più, anche con questa cultura o meglio culture del trans umanesimo e post umanesimo, e la loro seducente delega alle macchine, di costruire una cittadinanza dell’amore, del perdono,, della reciprocità, della non vendetta, della trasparenza, mi rimprovera apertamente dice Gesù, colui che sbaglia, cioè diglielo con grande franchezza senza le menzogne a cui noi siamo abituati, noi davvero fratelli e sorelle, questa cittadinanza non possiamo pensare di costruirla con le nostre forze, possiamo pensare e sperare di essere  attratti dalla santità di Dio Padre nella misura in cui alziamo il nostro sguardo miope e riconosciamo che questa altrimenti oscurità, accesa dalla luce che arriva dall’alto è la bellezza di San Miniato al Monte, così come noi, guardando alla povertà delle nostre relazioni psicologiche ci condanniamo ogni giorno alla frustrazione del nostro riscoprirci nella colpa, nei meccanismi di peccato, nei nostri insuccessi fallimentari in ordine al tentativo di ritirarci un pochino su.

Ma se noi restiamo in questo cono di luce, lasciamo che la pioggia del Padre celeste scenda sulle nostre vite, lasciandoci riscoprire questa dimensione inevitabilmente coesiva del nostro essere tempio, tempio dello Spirito, allora con gli occhi pieni di luce ci accorgiamo che, nonostante i nostri fallimenti eccome se possiamo imparare a perdonarci, imparare a ad amarci, imparare a non vendicarci, imparare a donare più di quello che ci è chiesto, imparare a scoprire fratelli e sorelle, che veramente questo nostro futuro che pure ci appartiene, e che nello stesso tempo è di Cristo e Cristo di Dio, è veramente futuro nella misura in cui cessiamo di pensarci come delle individualità che a casaccio procedono verso il domani, senza una autentica strategia di futuro che è come ci sta insegnando questo mondo che si sgretola, questa terra che si inaridisce, questi cuori che piangono, queste armi che gridano, sarà un futuro inevitabilmente di distruzione e allora fratelli e sorelle a noi l’onere, l’onore di essere profezia vivente in questa penombra storica, lasciamo che dall’alto oltre alla pioggia del Padre celeste con il suo amore scenda una luce e finalmente questa luce rischiari la città, le città, il mondo intero e restituisca a tutti la consapevolezza  di non essere pietre, ciottoli, sassi isolati, ma bellezza che risplende nella vicenda coesiva e armonica di un tempio che nella luce di Cristo ci ostiniamo a chiamare pienezza di umanità. Amen.

 

22 Febbraio 2023 – Mercoledì delle Ceneri

Dal libro del profeta Gioèle
Gl 2,12-18

Così dice il Signore:
«Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion,
proclamate un solenne digiuno,
convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo,
indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
2Cor 5,20-6,2
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti:
«Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso».
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 6,1-6.16-18
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

Omelia:

Cari fratelli e sorelli ci si augura nella preghiera di essere fra coloro che sono destinatari di una ricompensa da parte del Padre, ovvero si nutre la speranza di non essere tra coloro che organizzano con le proprie forze, le proprie risorse, la ricompensa che il nostro cuore legittimamente ed intelligentemente si aspetta, nella grande e sofferta avventura della vita.

Credo la Quaresima offra a noi davvero una riedizione di una sorta di Y pitagorea, herculea, da un lato la possibilità di autostrutturarci, di riconoscere, nel compiacimento che può arrivare da fuori, una forza compensativa che dia slancio, vitalità, all’istintivo impeto di autoconservazione, oltremodo necessario per affrontare l’erosione dell’esistenza. L’alternativa secca è invece riconoscere una volta di più il vuoto, l’assenza, questa forma di cratere che abita e modella il nostro cuore e che riconosciamo acconsentendo al destrutturarsi progressivo di ogni forma di autocompensazione, autocompiacimento, in una sempre più coraggiosa speleologia dello Spirito, quella che ci invita a immergerci nelle cavità carsiche del nostro cuore, a non temere quelle zone profonde, vaste, solcate da fiumi oscuri che riportano in una penombra di superficie le nostre ferite, i nostri fallimenti, le nostre mancanze. Ed è proprio in questa consapevolezza oscura, tenebrosa, che la nostra avventura quaresimale prende le mosse, riconoscendo come abbiamo già fatto nell’intonazione del salmo e delle altre splendide melodie e fra qualche istante accogliendo, ricevendo l’oltraggio delle ceneri sulla nostra fronte, riconosciamo davvero che non c’è forza umana che argini questo destrutturarsi, e lo sentiamo e lo riconosciamo come un’occasione propizia nella quale viene condotta l’inconsistenza della nostra condizione umana, con coraggio, con forza, ma anche con grande paterna premura da parte del Padre che con la voce della Chiesa, il suo essere ambasciatrice di una riconciliazione, incoraggia tutti noi a cedere a questo impeto di rinnovamento ove la forza non è quella di Ercole che lotta contro i suoi nemici per affermarsi in fatiche sempre più grandi, ma al contrario è partecipare di questo mistero del Signore Gesù che Paolo esprime in termini letteralmente da capogiro e che finalmente possiamo recepire nella pregnanza della giusta traduzione: “Dio lo rese peccato”, una immagine che era stata per la sua forza indebolita da traduzioni inefficaci, e soprattutto non giuste nel dirci come sia lo stesso Signore Gesù ad accompagnarci, a proporsi come modello di questo destrutturarsi, in una dimensione fratelli e sorelle, che non deve spaventarci, ma al contrario essere acquisita come una grande occasione di verità nel profondo del nostro cuore, nella labilità dei nostri pensieri, nella contingenza dei nostri cosiddetti punti di riferimento.

Davvero il Signore Gesù che il Padre rende peccato, è il laboratorio antropologico dove la forza teologica dell’amore, della pazienza e della misericordia del Padre, riconduce la nostra vecchia umanità ad una novità formidabile che celebreremo nella Pasqua di resurrezione del Signore Gesù, celebrazione cioè di una eterna figliolanza, più forte di ogni separazione, divaricazione, di peccato, di autosufficienza, di contrapposizione, elementi che sono gli effetti delle ferite inferte dal divisore e dal peccato nel nostro cuore, ferite tanto più profonde quanto risultato di questo nostro cedere alla presunzione, resa possibile da questo nostro arroccarci nelle nostre certezze, nelle nostre autosufficienze, nelle nostre autoconservazioni.

Ecco perché questa parola mi sembra risuoni stasera con grande forza: Dio rese peccato il Signore Gesù, dove peccare è veramente la mancanza di  pienezza, dove la mancanza di pienezza del Signore Gesù è naturalmente non fare il nostro male, sia chiaro, ma vivere fino in fondo questo suo svuotarsi per raggiungere le slabbrature della nostra condizione umana, questa sì disobbediente e protagonista di peccato. Ed è esattamente situandosi in questa nostra depressione esistenziale riparte una grande avventura di rinascita, di riconfigurazione, di risurrezione della nostra dimensione umana antropologica che è il grande percorso quaresimale, il grande approdo pasquale che noi tutti insieme vogliamo vivere, affrontare, fratelli e sorelle, prendendoci per mano, riconoscendo le ferite della mia personale singolarità, ma ricomposta nella coralità di questo movimento penitenziale che vede per protagonista, secondo quanto ci è lasciato immaginare dalla prima lettura, un intero popolo, un protagonismo popolare, di penitenza, di lucidità, con il suo desiderio di conversione che significa ritornare al Signore perché ritornando al Signore ancora una volta il nostro presuntuoso protagonismo nella storia lasci spazio all’agire del Signore, al suo protagonismo, alla sua opera di pace, di giustizia, di riconciliazione, senza scaldarci i muscoli con il riarmo, con la pretesa di affermare la giustizia nell’equilibrio del terrore che uccide il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, che riespone la nostra condizione umana al rischio oggettivo e concreto di essere cancellata dalla faccia di questa terra dataci in custodia perché fiorisca di pace e non di guerra.

Il Signore Gesù ci chiede davvero fratelli e sorelle, anche se siamo in pochi, di essere un segno luminoso ed eloquente, umile e perseverante nel ritrarsi laddove si è retratto il Signore Gesù, nello spazio del deserto,  nella depressione della mancanza di- .  Ecco il senso del peccato di cui parla Paolo coraggiosamente, perché tutto sia colmato dall’amore del Padre, dalla sua pace, dalla sua giustizia, dalla sua pazienza, dalla sua misericordia. Se il Padre celeste non trova almeno in noi uno spazio, una disponibilità ad agire, che futuro vogliamo assegnare a questa nostra terra con l’oggettivo fallimento dei nostri umanesimi? Perché la guerra in Europa questo significa, che è morto l’umanesimo, noi che abbiamo e  avremmo dovuto avere il vanto di avere inventato la democrazia, di avere inventato la diplomazia, di avere inventato una esperienza del pensiero che in quanto logos è capace di dia-logos, constatiamo che ancora una volta nel giro di pochi decenni i confini orientali, e sottolineo orientali, da dove dovrebbe arrivare la luce della pace, del Messia che torna in mezzo a noi, sono insanguinati, accesi da guerra e soprattutto da questa rincorsa ideologica al pensiero che sia la forza del riarmo, la forza della contrapposizione, la muscolarità dell’odio contro odio ad indicare la via di uscita da questa situazione suicida.

Chiaro, questo non significa dimenticare i diritti degli oppressi, l’oggettiva gravità della violazione di mille norme di convivenza internazionale, ma questo non può autorizzare noi credenti in Cristo ad accomodarci in una prospettiva di bilanciamento esclusivamente assegnato alla forza della forza. Dunque questo nostro essere qui fratelli e sorelle eccome se ha anche una grandissima rilevanza politica, civile, sociale, grandissimo monito la nostra preghiera, grandissimo monito il nostro ritirarci nel deserto, grandissimo monito il nostro digiunare, grandissimo monito la nostra elemosina, è esattamente in questo svuotarsi che agisce finalmente la ricompensa del Padre celeste dentro il nostro cuore, non il nostro compiacersi davanti agli altri, non i suoni di trombe, non le mani che contano quanto ha dato l’altra mano, e via di seguito, le immagini sono evidenti, ma è questo segreto di cui parla intensamente il Vangelo, il grande luogo dove si attua la ricompensa, cioè l’adozione rinnovata, questa figliolanza che il Signore Gesù esprime in una dimensione massima, totale, definitiva, pasquale, più forte della morte.

Sentirsi adottato da questo amore paziente del Padre che sprofonda in Cristo, nelle fessure, nei cretti del nostro cuore e che abita sia ben chiaro, fratelli e sorelle, lo diciamo con fede, con speranza, con tanto amore, anche a costo di essere presi per pazzi, nei cretti generati dalle forze della natura nella sua cecità indomita, in quelle terre bellissime e adesso così oltraggiate dal terremoto dove non solo lo sguardo dei pochi sopravvissuti segnala come davvero del Signore è la terra e quanto contiene, a stordire qualsiasi nostra presunzione di ritenerci con le armi di essere signori di chissà quale geografia, ma anche quando la vita non ce l’ha fatta quegli abbracci di padri sui corpi di figli, di madri sui corpi di figli, ditemi se non esprimono già una adozione pasquale che svela dove sia la dignità della nostra condizione umana, proteggersi, deporre la vita, fare spazio al futuro in qualsiasi modo, con qualsiasi rischio: lì si celebra l’umanesimo anche se paradossalmente incorniciato da case che dovevano resistere e non hanno resistito, ancora una volta per il culto della potenza, del profitto,  dell’arricchimento parziale ed individuale.

Fratelli e sorelle, questo nostro piccolo popolo di San Miniato è consapevole di iniziare una sorta di presidio spirituale ai margini della città, in prossimità del deserto, non cedete alla tentazione di ritirarvi da questa tensione di profezia, di patimento, di sfinimento, lasciate che esso si esprima anche con i metodi tradizionali della Quaresima, il digiuno, perché no? Una certa sobrietà. Perché no? Un certo silenzio. Perché no? Una certa rinuncia. Perché no? A noi che siamo abituati a volere, avere, possedere, controllare, decifrare tutto, la fame insegna tantissimo circa il limite della nostra creaturalità e questa disgregazione non è fine a sé stessa, non è per  compiacerci, ma perché la ricompensa che il Padre inizia ad effettuare nell’intimo dei nostri cuori, rigenerando la nostra figliolanza, non potrà che produrre un eccesso, un’eccedenza, una ubriacatura di carità e di amore, fate parlare le vostre mani donando, trasmettendo, condividendo, cedendo, senza calcolo, con scialo proprio. Quello che siamo vale molto, infinitamente di più, di quello che abbiamo, fosse solo per questo insegnamento la Quaresima è davvero il Kairos, l’occasione favorevole per riassestare la nostra consistenza non nelle nostre presunte certezze che si strutturano con ingegneristiche muscolari ma la nostra verità è nella sua capacità di lasciarsi sgretolare dalla forza dello Spirito per accogliere, in profondità, il Logos, il Verbo incarnato, il Figlio, nella cui figliolanza gratuita e generosa rinascere, sollevati dallo sguardo pieno di luce del nostro Padre celeste. Amen

 

26 Febbraio 2023 – I domenica di Quaresima

Dal libro della Gènesi
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, è davvero consolante sperimentare come, attraverso la dinamica liturgica, si possa tornare ad esporre  i nostri corpi, la nostra anima, il nostro spirito a questa narrazione aperta che vede la vicenda del Signore Gesù condotto dallo Spirito Santo nel deserto ed esposto dalla parola del divisore ad una estrema prova di conoscenza di sé, per poi confermarsi nel suo essere originato da un irrinunciabile amore, quello del Padre; è davvero anche per noi il compendio esistenziale riassuntivo delle nostre vicende personali, riassuntivo ed espressivo di ciò che di fatto riassume e condensa la nostra condizione esistenziale, l’avventura dei nostri giorni, la responsabilità della nostra libertà, la nostra consapevolezza nel suo generarsi anche attraverso la quasi inevitabile rottura con la coscienza di avere un’origine da cui scaturisce la nostra vita, alla ricerca di una autonomia che parrebbe l’approdo necessario per considerarsi veramente uomini e donne compiuti nella loro libertà, nella loro scelta, nella loro singolarità. E queste parole scendono fratelli e sorelle non per ammortizzare, neutralizzare o anestetizzare questa tensione che sta dentro di noi, che ha reso la nostra adolescenza una bruciante avventura di originalità, di distinzione, di separazione, di conflittualità più o meno acute, più o meno risolte, ma fa parte davvero della nostra vita questo momento in cui ne dobbiamo afferrare gli estremi e stringerli questi estremi in un nodo fabbricato dalla nostra originalità che sembrerebbe diventare l’unico appiglio possibile con cui aggrapparci, sollevarci, dal tormento delle nostre passioni, dalla sensazione di un tempo che ci trasforma con tutti gli squilibri del caso, quando il corpo cresce troppo in fretta, l’anima rallenta, o viceversa. Quando in questa tempesta interiore è quasi impossibile dare ascolto allo Spirito allora ci si aggrappa a questo nodo nella certezza che per la sua originalità solo noi lo sapremo sciogliere. E questo nodo ci sembra capace di sollevarci, come già detto, su questi marosi, salvo poi renderci conto che non può sollevarci perché è un tutt’uno di noi, non ha nessuna consistenza perché è un nodo espressivo della nostra creaturalità, chiusa in sé stessa, che ha rifiutato la possibilità di uno slancio verticale, perché slanciarsi verticalmente parrebbe  tornare a riconoscersi originati da una paternità verticale, esattamente ciò che volevamo evitare, ciò che ritenevamo una sconfitta o per lo meno un compromesso nel nostro diventare pienamente uomini e donne con le nostre risorse, con le nostre capacità, torno a dirlo, con le nostre singolarità, con una nostra visione della realtà che, sempre per quella tempesta emotiva e quello squilibrio di crescita, pareva fornirci un punto di vista sufficientemente consistente per consegnarci un sistema di misura dato una volta per tutte in ordine alle valutazioni circa il bene, il male, il fare, il non fare, il doversi, non doversi compiere, il potere e non poter diventare; ma questo nodo che raccordava lembi degli estremi di una vita integralmente consegnata ed assorbita nella autoreferenzialità della nostra adolescenza, non poteva sollevarci perché tutto disteso in questa dimensione, direi inevitabilmente terrena dove per terreno si intende proprio il suolo, si intende la superficie calpestata, da calpestare, da misurare, l’obbligatorietà di una sorta di dedizione alla terra come unica possibilità di accogliere una dimensione attraverso la quale misurare quella crescita, quelle crescite nella loro distonia, nella loro diffrazione.

Ecco io non vorrei indulgere troppo su dati eventualmente autobiografici e certamente psicologici, ma credo sia necessario prospettare un quadro sorgivo della nostra coscienza adulta, pur non avendo competenza alcuna di psicologia, né infantile né adolescenziale né in genere ma perché la parola di Dio oggi insiste tantissimo, come avete ascoltato, su questo presupposto antropologico e io torno a dirvi che una parola che scende in profondità, visitando, illuminando, rischiarando i recessi della nostra psicologia, della nostra storia, della nostra biografia esistenziale, è consolazione perché ci viene offerta una parola che parla di noi parlando di Cristo, mettendo in scena la crescita di Cristo, il suo maturarsi, il suo compiersi, il suo adempiersi, il suo affrontare nella libertà il rischio insito nell’attraversare la creaturalità, certo come Figlio di Dio, partecipe in totale pienezza della natura divina ma anche pienamente umano.

E allora ecco che queste parole ci consolano perché avvertiamo la possibilità di rileggerci, ognuno di noi secondo la propria storia, uscendo anche dai quadri relazionali che per fedeltà alla lettera biblica ho tratteggiato e anche naturalmente in obbedienza alla mia personale storia, ma ciascuno di voi sa e saprà benissimo rintracciare quella storia di liberazione dalla verticalità, sia stata una dialettica con la madre, col padre, col fratello, con la sorella, non importa questo, o anche senza dialettica alcuna, tutti noi ci siamo dovuti confrontare con questa dimensione di limite proprio personale e della creazione stessa nel suo potenziale ambiguo, necessariamente ambiguo, perché oggetto della  nostra ambiguità, cosa fare di tutto quello che è stato dato dal padre, dalla madre alla mia intelligenza, alla mia volontà e alla mia libertà? Appropriarcene, trasformarlo, mistificarlo, depotenziarlo? O al contrario intensificarlo?

C’è tutta una gamma di potenzialità che si riassumono almeno nella sua istanza sorgiva in questa pretesa di autoconservazione inscritta nel nostro codice genetico, perché la vita esalta e nello stesso spaventa e la si deve trattenere e sembra che tutta la realtà concorra alla possibilità di trattenere questa vita, dandoci se non serenità e pace, almeno la forza, il riscatto, l’energia con cui installarci autonomamente nella vita; per questo, io credo, al bambino venga spontaneo afferrare la cosa, qualunque cosa e dire che quella cosa è sua, è mia, è ricondotta a questa pretesa soggettiva che noi possiamo moralizzare in mille modi, educando all’altruismo, alla generosità, ma spesso lo facciamo senza cogliere il dramma inscritto in questa pretesa originaria, sorgiva della nostra condizione umana, della nostra libertà in rapporto a noi stessi, agli altri e alle cose ed è per questo molto importante che oggi su questo dramma interiore agisca una parola che non è una parola moralistica, non è una parola che ci dica cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo scegliere di fare in nome di un presupposto bene e di un presupposto male, questa è una parola che invece –questo è il senso anche del mio parlarne gridando- scende in profondità, lasciatevi visitare da questa parola che è per noi, Dio ce la sta donando nella dinamica liturgica, ce la sta donando in questo deserto che abbiamo deciso di intraprendere insieme in obbedienza allo Spirito che agisce nel profondo del nostro cuore, tagliuzzando tutti quei nodi piccoli o grandi che abbiamo consapevolmente e inconsapevolmente stretto nella speranza di un appiglio interiore in forza del quale tirandolo, uscire, chissà come, da questa tempesta esistenziale.

E quando non ci sono bastati i nodi abbiamo scelto altre modalità mediante la cui dipendenza avvertire almeno per qualche istante il rilassarsi di questa tensione, in un processo inevitabilmente artificioso, contingente, provvisorio, illusorio, di liberazione, pensando così di tornare a vivere una possibile sintesi della mia esistenza, ancora una volta raccogliendola secondo il nostro singolarissimo punto di vista e sistema di misura.

Questo incrocio di limiti, il mio limite, il limite della creatura, assume davvero la forma filiforme del serpente.

Assume cioè questa dimensione strisciante che appare non si sa come, non si sa da dove, il testo biblico non ci dice assolutamente niente di questo serpente, ne segnala l’esistenza, lo mostra in questa sua capacità di insinuarsi, torno a dirlo, quasi inevitabilmente come linea sinuosa, dinamica, fra il mio limite e il limite della creazione. E questa faglia dinamica che ha una sua soggettività lucida, consapevole, viene a interagire col profondo del nostro cuore, col profondo della nostra coscienza, esattamente in questo passaggio che io, credo abbastanza inopportunamente ma non ho migliore aggettivo, qualifico adolescenziale, perché tutti sappiamo che è quello un po’ il passaggio, e naturalmente cosa può proporre la sommatoria di due limiti? Che alla coscienza di essere limite, quindi per sua natura divisivo, con questa sua pretesa di assolutizzarsi rispetto a chi non è creazione, ma creatore, rispetto a chi è vertice, zenit, punta sorgiva di tutto l’essere ed è esattamente da questa punta dell’essere, da questa origine dell’essere, da questa paternità dell’essere che il nostro esserci vorrebbe liberarsi. E allora il serpente non può che proporre questa scelta di liberazione, di autonomizzazione piena, proponendo il frutto della sapienza, del bene e del male, e anche qui attenzione perché non si tratta di una semplice distinzione morale, etica, si tratta della pretesa, gustando quel frutto, di accedere a ciò che sta a monte del bene e del male, la capacità cioè di diventare capaci con l’uso improprio della nostra cultura di stabilire ciò che è mio, ciò che è bene, ciò che è male, ciò di cui devo e posso appropriarmi, ciò che devo e posso  respingere gettandolo sugli altri. Quindi si tratta di un potere estremo, un potere che avrebbe la pretesa, gustando quel cibo, di diventare come Dio, per la ragione di essere così entrati nella possibilità fratelli e sorelle di una autentica rifondazione della realtà, questo è veramente l’incubo nel quale entrano Adamo ed Eva, un incubo fratelli e sorelle che è l’incubo permanente di questa nostra storia sventurata, la scoperta allucinante e allucinogena di sentirsi nudi è espressiva chiarissimamente di cosa comporti vivere in questo incubo in cui direi in senso neutro, finalmente ci accorgiamo a nostre spese della nostra creaturalità, del nostro essere inermi, fragili, indifesi, di essere in una parola limite, esposto al limite della creazione, in una dimensione che non può che generare attrito, scintilla, fatica, resistenza, dolore, pensate al dolore che in un linguaggio chiaramente simbolico, condanna la donna nel suo generare figli, dove cioè anche la dimensione generativa del nuovo non è esclusa e risparmiata da questa fatica, da questo incubo, da questo attrito.

Quindi fratelli e sorelle, questo, detto con la stanchezza altrettanto allucinata delle dieci del mattino di domenica, è direi il quadro esistenziale che credo la parola ripresenta ad ognuno di noi e lo fa non per spaventarci, la mia voce magari sì, ma senza volerlo ovviamente, ma è perché ci si rende facilmente conto fratelli e sorelle che da qui scaturiscono guerre, da qui scaturiscono terremoti che distruggono case fatte di gesso, da qui scaturisce una tecnologia pervasiva ed invasiva che riducendo l’uomo e la donna a fenomeno chimico, pensa di potersi appropriare della libertà, della fragilità, della responsabilità del cuore dell’uomo nella sua libertà di scegliere, di sbagliare, ma direi artisticamente di creare bellezza, facendo i conti con il suo limite.

E allora fratelli e sorelle su questo scenario ecco che questa parola è grande consolazione, è grande illuminazione, e stiamo già ringraziando tutti il Signore di averci condotto in questo deserto visivo che sì, possiamo anche immaginare come Sahara, come le scenografie dei film su Gesù, ma il deserto di Gesù è il deserto di questa nostra storia controversa, possiamo veramente proiettarlo come certi registi d’opera contemporanea, negli scenari di guerra in Ukraina, nelle periferie delle megalopoli a sud del mondo, nelle solitudini delle nostre case europee, nei luoghi dove si danno appuntamento coloro che vivono di dipendenze, insomma tutto quello che è l’estremo deteriorarsi e corrompersi di quella nudità di cui si accorgono Adamo ed Eva.

E siamo lieti di essere in questo deserto, iniziato per l’appunto col segno della cenere, fratelli e sorelle, questo oltraggio, “polvere sei e polvere ritornerai”, capite che io non sto esagerando fratelli e sorelle, sto portando semplicemente, nemmeno alle estreme conseguenze, sto cercando di delinearvi perché la parola di Dio, perché la liturgia ci ha detto, gettandoci la cenere in faccia che siamo per questo, ma proprio su questa verità insiste lo Spirito, insiste, è il caso di dirlo, dopo aver insistito su quella argilla lavorata pazientemente da quel Dio che pure tutto già sapeva e che tuttavia per rispetto della nostra libertà e per il suo essere alleato del bene ha lasciato che la nostra vicenda umana iniziasse. Lo Spirito insiste conducendo il nuovo Adamo, Gesù Cristo, in quel deserto, nel nostro deserto, dove tutto è polvere, tutto è cenere, tutto è sale, dove Lui stesso corre il rischio di diventare sabbia assolutizzando se stesso col prodigio di chissà quale trasformazione, quelle per cui il sasso diventa pane, sostituendosi, notate la logica, alla parola del creatore che quando ha voluto che il pane fosse pane ha chiamato pane e non sasso e quando ha voluto che fosse sasso ha chiamato sasso e non pane, capite di nuovo la verticalità cui obbedisce il Signore Gesù, senza scomodare Dio, mettendolo alla prova o sostituendolo con cose create, la terza tentazione.

E ci consola sentire che il Signore dopo quaranta giorni ha fame, fratelli e sorelle, come anche noi abbiamo fame e questa sua fame gli fa spalancare la bocca per essere nutrito da angeli scesi dal cielo e questa fame di Dio sarà più forte della paura quando sulla croce continuerà ad avere appetito della misericordia salvifica del Padre celeste di fronte alla quale ha finalmente riportato la nostra intera vicenda umana perché su quella croce ritrovasse un Padre, ritrovasse quella verticalità ed alla inconsistenza dei nostri nodi adolescenziali, la Pasqua vi apportasse una colonna di luce cui aggrappare noi e tutta la nostra storia finalmente in una speranza e in una promessa mantenuta di beatitudine e di pace per il mondo intero. Amen.

Trascrizioni a cura di Grazia Collini

La fotografia è di Mariangela Montanari

 

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