Omelie

«Occhi di pace, non periscopi di guerra!». Omelia del padre abate Bernardo per l’VIII Domenica del Tempo Ordinario

27 febbraio 2022 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

 

Dal libro del Siràcide
Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti;
così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace,
così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo.
Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela i pensieri del cuore.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
«La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, la liturgia della parola appare ai nostri orecchi un campionario di prospettive fra di loro in realtà abbastanza disarticolate per la ricchezza dei temi implicati, ma anche la molteplicità delle prospettive che, un po’ difficilmente, si unificano in una sintesi che ci permetta di cogliere una linea unitaria che anzitutto per comodo individuerei in questa preziosa e necessaria fruttificazione di un cuore buono, attraverso una parola buona.

Il fatto è che però noi adesso stiamo vivendo una stagione, fratelli e sorelle, non di parole cattive ma di gesti orrendamente cattivi e sentiamo come davvero quasi non ci bastino gli appelli a parole buone, a frutti che si possano riconoscere attraverso un parlare, come ci è stato detto dalla Prima Lettura che sia, per così dire, il setaccio in forza del quale si possa desumere un criterio con cui giudicare una persona. Siamo esposti, come è inutile nascondersi, a un rischio ancora una volta globale, ne avevamo già fatto esperienza dopo molto tempo con la pandemia, torniamo a farla adesso in questa esperienza dove la complessità delle relazioni sociali e politiche assomiglia a quel gioco nel quale basta spostare una tessera che tutta la struttura si deforma.

Questo senso di profonda angoscia non ci fa accontentare di parole pur buone, di propositi pur belli, nemmeno ci basta avere una sorta di criterio con cui riuscire a valutare la coerenza e la ragionevolezza di chi diventa maestro, pur nella disponibilità, anzi grazie alla disponibilità, di riconoscere le travi presenti nel proprio occhio.

Noi sentiamo che oggi è la parola che più agisce in profondità nel nostro cuore che condivido con forza, già entrando intensamente in un clima di intercessioni, di preghiere è questo invito di Paolo a restare “saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.

Sono parole che giungono dopo che Paolo ha tratteggiato un esito pasquale delle nostre esistenze che solo a prima vista ci riportano uno dei dati essenziali dell’esperienza pasquale, questa sorta di vestizione della nostra struttura personale di un abito di incorruttibilità, grazie al quale accedere ad una esperienza di vita piena, eterna, infinita.

Ma Paolo oggi tratteggia la liberazione pasquale anche attraverso un percorso che tocca direi il cuore di questo momento storico, assimilando la morte al peccato e situando l’esperienza mortifera del peccato nell’orizzonte per sua natura ristrettivo della legge e dalle legge ci libera la grazia del Signore, questa grazia del Signore appare come un dinamismo di amore che perdona, che risana, che guarisce che ci incontra, ci attraversa, ci trasfigura, una esperienza di misericordia, come esperienza di dilatazione del nostro cuore, come esperienza che ci fa scoprire nel profondo del nostro cuore l’azione spirituale di un infinito amore che ci ama così come siamo, con i nostri difetti di fabbricazione, le nostre povertà, le nostre contraddizioni, che chiede solo e soltanto da parte nostra una disponibilità radicale ad essere il luogo dell’azione dell’opera del Signore, dove la saldezza è davvero la fatica di sostituire il Signore dal nostro io, di metterlo al centro del nostro cuore, al centro delle nostre prospettive, al centro delle nostre misure e delle nostre capacità.

Spero si intenda bene che il mio non è un ragionamento volontaristico moralistico che ha il suo esito, il suo compimento in uno sforzo concettuale che delimita la fede ad una esperienza cerebrale: io voglio credere, devo credere!

Qui accogliere l’opera del Signore fratelli e sorelle, è l’esperienza che, consapevolmente o non consapevolmente, il mondo sta facendo, disposto come è al capriccio di pochissime persone con interessi complessi di natura culturale, economica, politica, io non ho le competenze davvero per farvi diagnosi, come si dice oggi, di geopolitica, certamente direi il profilo tutto sommato mediocre dei nostri governanti, dall’una e dall’altra parte nello scacchiere internazionale dà plausibilità al nostro sentirci vittime di capricci psicologici oltre che di macrointeressi economici.

Questa sensazione che ha quasi il sapore della beffa dissolve fratelli e sorelle, globalmente, i sistemi di misura, di pianificazione, i metodi di abitabilità, di rappresentatività, di proiezioni, con cui ci sentivamo fino a poco tempo fa arbitri e signori di questa nostra storia. Poteva esserci nessuno la negava, l’incidentalità di una malattia, di un imprevisto, ma fondamentalmente ci sentivamo signori di uno scenario più o meno esteso, dove la programmazione, pur attenuata dalle nebbie del domani sfuggente, era comunque in nostro potere.

Oggi con una rapidità impressionante, dalla forza microscopica del virus siamo passati alla soggezione di forze macroscopiche, di armi, di scenari tattici, di scontri bellici, ne esce un antiumanesimo, fratelli e sorelle, di fronte al quale la grande cultura della parola, che fa grande il nostro umanesimo, quella scienza particolarissima che si chiama filologia, cioè questa cura nell’espressone verbale cui lo stesso Signore si sottopone, per parlarci con una lingua che rispetti la nostra grammatica -questo ce lo ha detto Papa Benedetto a Parigi nel 2007- il Signore che dimostra la sua umiltà anche rispettando la nostra grammatica, la nostra sintassi, questa disciplina qui salta.

Per questo queste parole di oggi, bellissime sia chiaro, meravigliose, ma da quando le sto meditando nello scenario bellico dove al posto della parola c’è la violenza, al posto dell’invito a cercare la pagliuzza nel nostro occhio, mio occhio, ci sono questi periscopi che puntano su case, ospedali, orfanotrofi, periferie, armi, e via di seguito, i loro strumenti di morte, noi qui abbiamo veramente bisogno, non di parole che segnalino una qualche qualità umana, abbiamo bisogno di restare saldi e irremovibile nell’opera del Signore, nella sua anteriorità, nella sua grazia, nella sua misericordia, nel suo farsi strada nel cuore di persone che si fermano, si fermano, non solo fermano le armi, semmai ci riusciranno, ma fermano tutto quello che fanno e voi stasera siete un campionario, numericamente assai ridotto, ma molto significativo e prezioso, di neoumanesimo, cioè di persone che riconoscono la qualità dell’umano nell’accogliere una parola che scaturisce, non dalle mie buone intenzioni, non dalla mia capacità diplomatica di apparire quello che non sono, ma scaturiscono dall’opera di Dio, da questo suo agire nella storia, dove la parola coincide con la cosa, la parola ebraica non a caso significa tanto parola quanto cosa, quanto evento, e questo luogo è la casa della parola-evento Gesù Cristo, parola-carne, è l’opera di Dio Padre che dona costantemente il Figlio all’uomo che lo vuole accogliere, e la grande fatica fratelli e sorelle è restare disponibili a questa possibilità, per niente scontata, questa nostra disponibilità.

È davvero un momento storico in cui si smarrisce la fede, si attenua la speranza, l’amore si raffredda, come potrebbe essere diversamente fratelli e sorelle? In un momento in cui, penso ai nostri ragazzi…li abbiamo fatti ora iniziare a uscire di casa, ritornare a scuola e già questi ragazzi vivono l’incubo della possibilità di una guerra, esperienza che oggi fanno molto più direttamente di altre generazioni attraverso le piattaforme sociali, costringiamo questi ragazzi a ricacciarsi in casa, a vedere ipotecati i loro sogni, il loro modo di investire sul futuro.

Quindi il momento è veramente difficile fratelli e sorelle, e non sono qui a vendervi parole consolatorie, il passaggio storico sfugge a qualsiasi portata di previsione, molti ci chiedono a telefono, qualche giornalista: -Padre, l’arma della preghiera.

Io devo dirvi che è un’espressione che non amo, la preghiera non è un’arma, anzi, in coerenza di quanto sto cercando di dirvi la preghiera è veramente il disarmo totale. All’antiumanesimo della violenza si oppone, per così dire, l’antiumanesimo del silenzio da cui si partorisce la vera preghiera. Cioè questa dimensione in cui la nostra consistenza umana quasi si dissolve, attonita, sgomenta, impaurita.  Come negare    la paura con cui ci alziamo la mattina e io vi confesso l’ho già detto a una Messa del mattino qualche tempo fa quindi per voi forse è cosa nuova , io inizio la giornata così, tanto siamo in pochi , tutti sono andati alla  Messa a Santa Croce stamani, quindi mi sento veramente con pochi amici, io la prima cosa che faccio sono le tendenze su Twitter così vedo subito se c’è stato un terremoto, per pregare naturalmente eh, e adesso per vedere cosa sta succedendo in Ucraina e nel mondo. Da queste notizie e dalle sensazioni che generano nel mio cuore scaturisce un primo momento di preghiera, ancora disteso a letto, anche i monaci dormono, un pochino ma dormono, e in questa situazione quasi embrionale, uterina, uno veramente è, nel risveglio,  quasi soggetto alle emozioni e ai sentimenti.

San Benedetto ci fa svegliare proprio in questo momento antropologico e psicologico dove si è deboli, inermi, quasi bambini, capricciosi nella volontà di restare a letto, ma nello stesso tempo di sentire la campana che suona. Ecco, la preghiera nasce qui, altro che arma, nasce proprio come un momento in cui sentiamo che non abbiamo altra forza se non gettare l’affanno, come dice il Salmo, nelle mani del Signore, in qualcuno che supponiamo, speriamo, desideriamo, immaginiamo oltre la volta oscura del cielo, perché è ancora oscuro il cielo quando ci si sveglia, che sia in qualche modo il motore immobile che ci chiama ad una esperienza di preghiera che non a caso, la Regola di San Benedetto chiama con questa espressione di San Paolo, opera del Signore, perché tutto questo sentimento contraddittorio di paura, di angoscia, qualche volta anche di gioia, di attesa, di trepidazione, sia inserito in questa galleria del vento, suscitata dallo Spirito dove la nostra stasi, la nostra paura di iniziare la giornata è come risucchiata da un’energia che ci precede, l’opera del Signore. Costa fatica, indubbiamente, ma è l’unica forza di trazione nella quale è ancora possibile abbandonarci senza riserve, senza esitazioni, perché la preghiera a questo ci schiude, all’esperienza del sentirsi amati nonostante tutto, sentirsi perdonati, nonostante tutto, sentirsi invitati alla vita, nonostante tutto.

Per questo fratelli e sorelle è molto importante non dare accezioni moralistiche, volontaristiche, cerebralistiche alla nostra fragilissima esperienza di fede, non ci può essere chiesto dal Signore di là quando andremo la risoluzione di qualche teorema teologico, ma ci sarà chiesto quanto e come, con quale fatica abbiamo detto di sì quella mattina in cui sentivamo che la nostra forza era chiuderci nel no, tirare su le coperte, ripararci dal giorno che nasce.

Quante volte abbiamo girato le spalle -voi, io no, dormo da solo, funziona così in monastero ovviamente- alla persona che amate, quante volte avete fatto finta di non ascoltare il pianto, le richieste dei vostri figli o dei vostri nipoti?

C’è una dimensione in cui istintivamente sentiamo che l’unica risorsa emotiva all’emozione che patiamo è chiuderci in noi stessi, ma allora diventiamo la grande trave sotto la quale non vediamo più, non ascoltiamo più, non parliamo più, non agiamo più nel nome del Signore.

Che il vento dello Spirito soffi forte fratelli e sorelle in questa storia di nebbia, di fumo, di rabbia, di disillusioni, di risentimenti, porti con sé una luce, una luce pasquale che non solo vesta di  incorruttibilità i nostri morti, già tantissimi, ma anche le nostre speranze, il nostro amore, la nostra piccola fede e ridia propulsione alla nostra capacità di credere nell’umano, perché abbiamo imparato prima ancora a credere a quell’amore divino grazie al quale l’umano è.

È questa la grammatica elementare del sì sì, no no, cui il Vangelo ci educa per essere testimoni di una eccedenza che non possiamo permetterci né di dimenticare, tanto meno dissolvere. Amen!

 

La trascrizione è a cura di Grazia Collini

La foto, scattata da Marton Monus il 28 febbraio 2022, ritrae un bambino ucraino rifugiato a Budapest

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