Omelie

«Nel vuoto d’aria di una nube di luce». Omelia del padre abate Bernardo per la II Domenica di Quaresima

17 marzo 2019 – II Domenica di Quaresima ©

Dal libro della Gènesi
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
«Alla tua discendenza
io do questa terra,
dal fiume d’Egitto
al grande fiume, il fiume Eufrate».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

Omelia:

Mi sia permesso di iniziare con una intenzione ed una intonazione personale soggettiva, non dovrebbe accadere perché l’omelia è tutta al servizio della parola di Dio, però lasciatemi dire che mi sento molto partecipe del sonno degli Apostoli prediletti dal Signore Gesù, così tanto da esseri portati sul Monte Tabor, anzi, oso dire, forse qualcuno di voi sarà venuto per la prima volta incuriosito da questo Padre Bernardo di cui non se ne può più veramente, io per primo, ma sono anche felice che il Signore mi umili, perché non vi fa trovare chissà quale predicatore scoppiettante, esaltato dall’esperienza ad Ariccia, sui castelli romani, bensì l’ombra dell’ombra di quello che fu il Bernardo di un tempo, spossato come sono dalle fatiche di giorni bellissimi, intensi, ma anche estremamente esigenti.

Quindi mi presento a voi proprio nudo, debole e fragile, che è anche forse la situazione esistenziale migliore non solo davvero per ridimensionare qualsiasi proiezione di luce che questa bolla mediatica, presto destinata a scoppiare, mi auguro, può eventualmente aver riflesso sulla mia poverissima persona, ma anche perché, impastato di stanchezza riesco bene a capire anche la percezione che possono avere vissuto questi discepoli del Signore Gesù, la percezione di un torpore, ci dice anche il testo di Genesi, che scende sulla vita, sul cuore e sui pensieri di Abramo alla vigilia di un passaggio importante: Dio stesso che agisce per sancire a modo tutto suo, senza qualsiasi forma di pariteticità che ogni altra umana alleanza prevederebbe, il suo desiderio di donare ad Abramo e alla discendenza tanti figli quante le stelle del firmamento.

E così di fronte al Tabor, gravido di una luce che rinnova la consapevolezza oggi di chi sia davvero Gesù, pure una sonnolenza che segnala la nostra incapacità di supportare con tutte le nostre forze naturali e psicologiche l’ingresso forte di Dio nella nostra vita.

Effettivamente potrei dire lo stesso dei giorni trascorsi, quando si vive a stretto contatto col mistero, al di là della fatica fisica che puoi avere speso, è proprio la grazia dell’essere nel cuore del mistero che genera spossatezza e quindi la condivido proprio volentieri, per dire anche a voi di prestare attenzione alla vostra stanchezza, di non farla diventare qualcosa da vincere con tecniche di qualsiasi tipo , ma qualcosa da accogliere in fondo come un fermento prezioso che può, indebolendo la lucidità argomentativa e razionale, disporvi anche, da un lato alla consapevolezza di un vostro-nostro limite, di una nostra debolezza, dall’altra anche ad accorgerci, mediante lo sguardo della fede, di come il Signore, non appena gli doniamo un po’ di vuoto, sa espandersi nel nostro cuore, sa farsi davvero lui vigilanza, ardore e forza che trasfigura le nostre piccole e fragili esistenze.

Questa scuola di umiliazione che genera la vera umiltà, non quella presunta, ma quella autentica che si rigenera ogni volta che ci ritroviamo per terra, è davvero una grande lezione della Quaresima e ci viene proposta in questa domenica in modo forte, in cui alla sonnolenza dei discepoli, alla loro tentazione di fermare la storia e di adagiare le loro esistenze in questa sorta di guazza luminosa, risponde di fatto il grande invito che il Signore Gesù ci fa di riassumere la storia, di assumerla anzi, con una forza, una dedizione, una responsabilità illuminate e per l’appunto trasfigurate dalla consapevolezza che l’umiltà genera, che la Quaresima genera, che la fatica del monte Tabor genera in coloro che respingono, come ha fatto Gesù, la grande tentazione di scansare la fatica, di scansare il mistero della vita, di scansare le domande, gli interrogativi, gli appelli che il mistero della vita tutta intera propone nel suo chiaroscuro quotidiano al nostro cuore.

Gesù sceglie di farsi vuoto davanti al Padre celeste, questa è la grande proposta che Gesù fa ai nostri cuore sempre saturi di prospettive, di programmazioni, di risorse più o meno efficaci per scansare il vuoto, per scansare la stanchezza, per scansare il senso di inutilità e infecondità che talvolta il mistero della vita effettivamente consegna ai nostri piccoli cuori. Perché si fa vuoto Gesù? Perché si prepara a diventare niente di meno sulla croce, fiala -uso questa immagine non mia, ma della tradizione orientale – fiala colma dello Spirito Santo, come accade con la Pasqua, quando il Signore accetta di essere prosciugato anche del suo sangue mediante la lancia infilzata nel suo costato per diventare lo spazio vuoto dove lo Spirito Santo può entrare, riuscendo così a saldare in modo pieno e definitivo l’amore, il progetto, il sogno, il desiderio del Padre celeste con la nostra umanità, generalmente satura di se stessa e che invece Gesù accetta in se stesso di svuotare, di depotenziare, di annichilire, pur di far strada ai disegni salvifici del Padre.

E questo gioco pasquale non accade una volta per tutte solo sulla croce, accade nella misura in cui anche noi, qui e ora, lasciamo spazio a quel vuoto, con una dimensione che trasfigura l’umiliazione con la quale ci riconosciamo disarmati e vuoti, una dimensione che è nel cuore del Signore Gesù e che non era nel cuore presuntuoso di Adamo e che si chiama obbedienza, si chiama cioè mettere a disposizione ogni mia facoltà, iniziando dal proprio corpo, al servizio del Padre celeste, perché la sua parola trovi spazio nei nostri cuori, perché la sua parola sia davvero il midollo della nostra vita, la linfa della nostra vita, per questo Gesù sale sul Tabor, sale dopo aver respinto la grande tentazione che risuona nelle parole di Pietro immediatamente pronunciate prima di questo episodio, e sono parole con le quali umanamente Pietro, così come desidererà restare per sempre nella guazza luminosa del Tabor, pretende sempre di avere con sé il Signore Gesù; per questo lo allontana, e Gesù invece guarda dritto, respinge la tentazione diabolica del divisore e proprio per questo fa vuoto in sé, questo vuoto, con tutta la fatica che comporta, lo porta in cima al Tabor, per restituire un destino verticale alla nostra presuntuosa condizione umana che, satura di se stessa, volge verso il basso, si appesantisce.

Ed è in questo salire verso l’alto che si celebra un meraviglioso prologo pasquale che è esattamente quello che abbiamo contemplato e che accade, badate bene, mentre Gesù prega. Una indicazione bellissima e preziosa che l’Evangelista Luca consegna alla nostra intelligenza della fede, noi che cosa stiamo facendo adesso?

Pregare! Noi stiamo pregando qui, in questa comunità celebrante che è la nostra, come si dice dagli anni 70 con un linguaggio un po’ sindacale, assemblea liturgica. Cosa significa questo? Una cosa bellissima che è questa liturgia qui, tanto più a San Miniato che è in alto, il nostro Tabor, qui dovremmo essere capaci di un discepolato dello svuotamento dalla fatica settimanale, per questo sono lieto di essere stanchissimo e in questa stanchezza c’è il desiderio proprio di abbassare tutto quello che per sei giorni della settimana ci ha tenuto in piedi, riconoscerci, almeno in questo giorno, bisognosi di un altro essenziale che se con umiltà accogliamo, spalancando le orecchie del cuore, ecco che trasforma anche noi in un riverbero della luce del Tabor, ci fa creature pasquali, e questo annuncio pasquale la liturgia lo colloca nel cuore della Quaresima che è iniziata con le Ceneri, ma per dirci che, misteriosamente, dopo quelle ceneri ci sarà la fiamma della notte di Pasqua, il Lumen pasquale.

Ma questo significa che noi dobbiamo essere la brace ardente che nessuna coltre di cenere spenge, se ci lasciamo ossigenare da una parola che entra con umiltà finalmente nei nostri cuori, entra finalmente nelle fibre della nostra esistenza, rende la nostra stanchezza e spossatezza una energia in realtà non nostra, ma davvero spirituale, pneumatica, quella che il Signore non si stanca di inviare come alito nei nostri cuori.

E questo diventa il paradossale annuncio di una Pasqua nel cuore della Quaresima.

Non ci arrendiamo alle nostre sconfitte, anche a quei propositi quaresimali che probabilmente dopo due domeniche già iniziano forse a indebolirsi: ma il Signore ama frustrare i nostri buoni propositi, le nostre eccellentissime prestazioni, perché è proprio lì che ci dà appuntamento, nella debolezza in cui il nostro io è finalmente frantumato e sentiamo il bisogno che un’altra mano, la sua, ricomponga le tessere di questo complesso puzzle che con le nostre sole mani e sguardi non riusciamo assolutamente a ricomporre nella sua originale progettazione che sta tutta nel sogno di Dio.

Quel sogno che sta sia alle nostre spalle nella nostra vicenda umana, sia soprattutto nel futuro dal quale il Signore non si stanca di chiamarci, appellarci, per assomigliare sempre di più, con la forza di un desiderio pasquale a quell’immagine che brilla oggi nel volto di Cristo -che non ce lo dimentichiamo, il nostro Beato Angelico ha dipinto in questa postura qui che è la postura crocifissa- per dirci che questa luce non è un bagliore generico, ma è luce che si fa strada proprio nell’umiltà con la quale il Signore Gesù, dopo aver salito il Tabor, salirà il Calvario, l’altra collina, quella ben più esigente che ci aspetta alla fine della vita perché anche la nostra estrema crocifissione abbia tutto il sapore della Pasqua.

Quella Pasqua che è profezia di quella conformazione al corpo glorioso che il Signore Gesù, pieno di amore, non ha tenuto solo per sé, ma ne vuole fare partecipe questo corpo, unto di grazia e di spirito, che è la sua Chiesa, che è questa comunità, che è questo nostro metterci in preghiera, con la speranza che le nostre fragilità diventino l’inestinguibile luce di bellezza del monte Tabor. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

 

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