Omelie

«Natale 2020: non importa quando, non importa dove, ma importa come». Due omelie del padre abate Bernardo in tempo di Avvento

6 dicembre 2020 – II domenica di Avvento (B)

 

Dal libro del profeta Isaìa
«Consolate, consolate il mio popolo
– dice il vostro Dio –.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta,
la sua colpa è scontata,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida:
«Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata,
ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore
e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte,
tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza,
tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere;
annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio!
Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio
e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto
e conduce dolcemente le pecore madri».

Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo
Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.
Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.
Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia.
Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.

Dal Vangelo secondo Marco
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Omelia:

Fratelli e sorelle, l’inizio nel tempo misurato dallo Spirito Santo, nel tempo ritmato dall’ascolto della parola del Signore, nel tempo illuminato dalla fede che il Signore ci dona, è un tempo che ha un inizio nel segno dell’indigenza, di ciò che manca, di ciò che ancora non è dato di custodire nel cuore, esponendoci così ad una vera e propria penuria, ma questo inizio così scarnificato che trova un’immagine concreta, una esistenza, una testimonianza, da un lato di Giovanni Battista, dall’altro nel deserto dove pure ha inizio il cammino del Signore Gesù, è un inizio che dice tantissimo alla nostra condizione umana.

E’ di segno opposto all’inizio come noi lo fabbrichiamo, i nostri inizi, segnati dalla paura di sbagliare, dal timore dello sconosciuto, dall’angoscia del nuovo, sono inizi che ci vedono nel cuore tentati da una costante saturazione, con la quale drogare il nostro cuore, attenuarle la nostra ricerca verso quello che ancora ci attende, è la modalità con la quale non a caso iniziamo l’anno nuovo, l’anno civile, in una sorta di scambio nevrotico di auguri, di brindisi, di doni, con i quali compensare la scoperta che ogni inizio autentico dovrebbe al contrario chiederci una messa a nudo di quello che ancora non siamo, perché tutto quello che l’inizio porterà ci trasforma, possibilmente ci migliori, ci converta, ma noi questa apertura incondizionata al nuovo, di cui l’inizio è accesso e garanzia, di fatto temendola, la evitiamo ed ecco perché ci piace questa sorta di non piena coincidenza fra l’inizio dei tempi civili, con il capodanno, il primo di gennaio e questo inizio di anno liturgico con l’austerità dell’Avvento.

Davvero fratelli e sorelle è preziosa per qualificare con uno sguardo di fede illuminato dallo Spirito l’attuale indigenza storica, sociale, economica, che nel segno della vulnerabilità, messa evidentemente così a tema della nostra attenzione con la pandemia, chiede di fatto di essere scoperta e riscoperta in un inizio che non solo sia portatore di speranza, speranza di salvezza, come solo l’amore del Signore Gesù può donare alle vostre vite, essendo un amore vagliato e temprato attraverso la sofferenza mediante la quale Cristo stesso ha lasciato che si annientasse la sua vita, di più c’è in noi l’esigenza, fratelli e sorelle, di una umiltà, cui accennavo all’inizio di questa celebrazione, necessaria proprio perché sia la nostra buona volontà, illuminata dalla Spirito, a spianare con l’abbattimento delle montagne delle nostre presunzioni, delle nostre certezze, la nostra vita, renderla accessibile a questo viaggio che pazientemente il Signore ogni anno intende compiere verso di noi.

E lo fa nel tempo di Avvento, in realtà lo fa ogni giorno, ma in modo particolare nel tempo di Avvento noi, memori della prima venuta del Signore Gesù nel Natale di Betlemme ci riscopriamo destinatari, nonostante tutto, di una seconda visita del Signore.

In questa luce la dimensione vigilante, di attenzione, di cura che tante volte le parole che ascoltiamo e preghiamo in tempo di Avvento riportano al nostro cuore, cura, attenzione, vigilanza con la quale non perdere di vista e non lasciarci impreparati nella oggettiva possibilità che il Signore bussi al nostro cuore. E lo fa, anche non ce ne accorgiamo e l’Avvento è il laboratorio in cui tutta l’ordinarietà della nostra vita liturgica, spirituale, ma direi anche della nostra attenzione alla vita in quanto tale, può diventare il segno e il contrassegno della visita del Signore nel nostro cuore, con la forza di una parola, con l’incanto e lo stupore di un silenzio, con il passaggio importante mediante il quale lo Spirito restituisce pace alla nostra rabbia, consolazione alla nostra tristezza, coraggio alle nostre paure: queste sono le visite che il Signore fa al nostro cuore, non c’è da improvvisarsi teologi o chissà quali mistici di contemplazione estrema, porre delle sonde attente alla profondità del nostro cuore e riconoscere delle trasformazioni che ci sono, e ci devono essere, nella misura in cui facciamo spazio al Signore con un supplemento di fede, siamo qui per questo, fratelli e sorelle, per crescere umilmente nella fede, con cui rendere queste sonde ancora più sensibili a queste energie sottili che restituiscono alla nostra vita la consapevolezza di essere in un perenne dialogo responsoriale con l’amore del Signore, vincendo la tentazione di essere noi lassù soli, nelle nostre montagne di solitudine, nelle nostre montagne di sicurezze, nelle nostre montagne di orgoglio.

Niente di tutto questo. Raddrizzare i sentieri, preparare la venuta del Signore, significa scarnificare questa nostra presunzione e renderla, nel segno dell’indigenza, ipersensibile a quello che il Signore fa arrivare al nostro cuore.

Per questo davvero fratelli e sorelle è un tempo preziosissimo e anche vi invito a notare la paradossalità del rigore liturgico del tempo di Avvento, anche se noi siamo portati un po’ ad attenuarlo nel clima giustamente festoso dell’attesa del Natale. Ma quest’anno, come vedete, c’è questo corto circuito, la pretesa di avere un Natale come tutti i Natali. Perché questa pretesa? Perché abbiamo trasformato il Natale in un idolo nel quale riscontrare oggettivamente, cosificandola, la nostra necessita di gioia, di allegria, di consolazione, di distrazione. Ma non funziona così, non può funzionare così, non deve funzionare così.

La pandemia ce lo dice con una eloquenza che in un certo senso è più forte nell’uomo e nella donna del nostro tempo dell’eloquenza, della forza, dell’espressività, del grido di Giovanni nel deserto. Un grido inascoltato perché per noi il Natale è la pretesa di avere un riscontro di gioia, con la quale drogarci, convincerci di essere nella ragione, di avere i diritti alla felicità. E tutto ritorna in questa dimensione che rende scontato quel nuovo che questo inizio scarnificato invece, da un lato ci fa tenere, dall’altro finalmente ci fa riconoscere come essenziale nella sua forza inedita e sorprendente, per dare un compimento autentico a questa nostra vita che da sola non riesce a darselo anche se trasforma il Natale e la sua novità assoluta duemila anni fa, in un altare in cui, per così dire, bruciare le nostre paure, propiziare le nostre certezze e farlo con l’olocausto dei nostri consumi e il soggetto di tutto questo non è lo Spirito, non può essere lo Spirito, ma è la nostra paura, travestita da pretesa.

Ecco perché facciamo fatica a comprendere, ad adattarci ad un Natale diverso, diamo la colpa, con più o meno ragione, non intendo entrare nel politico, al governo di turno, di qualsiasi colore sia, al provvedimento di quel governatore contro l’altro governatore, diamo la colpa ad una Chiesa che non sa difendere sé stessa se accetta di fare la Messa alle ventuno anziché a mezzanotte.

Questa è l’idiozia del nostro tempo. Il tutto perché non sappiamo sfruttare il tempo presente che il Signore ci dona con la sua portata sconcertante che rimette tutto in discussione, perché è Lui che rimette in discussione tutto fratelli e sorelle, non Lui perché ci manda la pandemia, ma Lui che ci chiede di decifrare la pandemia, sfruttare la pandemia, come occasione in cui riscoprire chi veramente è il Signore della storia, in che modalità Lui ha vissuto il suo Natale, e avendolo vissuto in quella modalità lì, venendo in mezzo a noi, come possiamo pretendere che il nostro disporci, prepararci ad accogliere la sua venuta, qui e ora, sia di segno diverso, nel segno cioè, lo ripeto, delle nostre certezze, delle nostre saturazioni, delle nostre compensazioni, delle nostre alienazioni, questo diciamolo con grande chiarezza. E’ la baggianata con cui si trasforma il Natale, per cui se tu vai al supermercato, già a settembre inizi a trovare festoni di Natale, cosa mi significa una lettura antropologica? Non scomodiamo categorie spirituali, teologali tanto meno moralistiche, perché mi conoscete, io non voglio farci la morale su queste cose, ma voglio che la nostra intelligenza, la vostra intelligenza, sia interrogata, come di fatto è, da questo ricorso ai segni del Natale spogliato dal loro significato autentico, trasformando cioè la festa della povertà di Dio, il suo annientamento in una festa in cui ci dobbiamo convincere di essere ricchi.

E questa dimensione fratelli e sorelle, ha funzionato fino all’anno scorso, confondendo l’obbligo delle ragalìe con la gratuità del Signore Gesù, che diventa appunto il grimaldello con cui l’idolo dei consumi entra e penetra nelle nostre viscere.

Quest’anno non può funzionare così e noi dobbiamo avere l’intelligenza, l’umiltà, il cuore, la creatività di vivere un Natale ancora più Natale, anche se dovessimo celebrare la messa alle ventuno anziché a mezzanotte.

Perché non è questo il problema, non è lo slittamento di due ore a renderci un Natale meno pittoresco, meno tradizionale, non è questione dell’ora, è questione della qualità del tempo con cui vivere un inizio nel segno di quell’indigenza che il Battista sempre inizia la Quaresima, inizia il tempo di Avvento, ci sbatte sulla nostra faccia.

E allora, fratelli e sorelle scusate se mi accaloro, ecco la prospettiva che questa inquietudine autentica, propizia, feconda viene anche a darci la risposta a coloro che, come ci ha fatto ricordare la seconda lettera di San Pietro, la seconda lettura meravigliosa, una Magna Charta si potrebbe quasi dire dell’attesa e della speranza cristiana in ogni tempo, rimeditatela fratelli e sorelle, quando cioè si deve rispondere a coloro che beffardamente ci dicono: voi credete in un Dio che ha promesso il suo ritorno, come mai non lo vediamo, come mai nulla cambia?

E’ una obiezione che viene fratelli e sorelle, da quanti, pur credendo nel divino, si ostinano a pensare che questo divino sia estraneo alla qualità e alla misura dei nostri tempi, per questo noi oggi alla scuola della liturgia ci ostiniamo a parlare di inizio, questo è il punto fratelli e sorelle, inizio, non parlerà mai di inizio chi pensa il tempo estraneo, estraneo all’amore di Dio, non così noi, che come tante volte vi dico abbiamo trasformato per grazia dell’incarnazione del Signore Gesù il tempio in tempo.

Allora dobbiamo e possiamo parlare di inizio, in qualsiasi contesto storico, anche questo, anzi questo di più, perché finalmente ci accorgiamo che l’inizio di cui abbiamo bisogno non è la sbornia del primo dell’anno, non è il problema di festeggiare il primo dell’anno, benissimo, però attenzione, non misuriamoci attraverso quell’inizio lì che è una convenzione gioiosa, festosa, anche noi vi facciamo gli auguri e lo facciamo col cuore, vi diciamo anzi, peggio ancora di comprare i nostri dolci in negozio, però non ci dobbiamo fermare qui fratelli e sorelle, voi soprattutto che alle dieci del mattino siete a San Miniato, in questo freddo, rischiando lo 0,0000 periodico di essere contagiati, mi dovete essere –parlo un po’ così alla Savonarola- i testimoni che gridano più forte sulla città parole di consolazione, parole di coraggio, risposta a coloro che dicono: ma come mai il Signore ritarda a venire?

E la vostra risposta, con San Pietro, è l’affermazione di una speranza che restituisce alla nostra storia la sua qualità in rapporto a Dio e al suo mistero, il suo ritardo è per darci tempo di convertirci –dice Pietro- e aggiunge, pensate un po’, quasi una teoria della relatività del tempo –Affrettate il suo ritorno convertendovi,

Come se noi potessimo tenere, noi uomini e donne, le redini del ritorno del Signore nella misura in cui, amandoci di più, perdonandoci di più, pazientando di più, sperando di più, credendo di più, lo costringiamo a tornare in mezzo in noi.

Ecco, questa energia cinetica dell’amore, fratelli e sorelle, è il grande contenuto dell’Avvento, dal nostro punto di vista, spianando le montagne, dal suo punto di vista promettendoci, anno dopo anno, un nuovo inizio che come un grido lacerante promana, non dal confort di un cenone di San Silvestro ma dall’indigenza della grotta di Betlemme.

Per questo ci crediamo al Signore Gesù, non per altro, per questo.

E allora la conseguenza del sentirci così amati da trasformare in calore il freddo della notte di Natale, alle ventuno o a mezzanotte non cambia, sia forza, il tepore, la lucidità, il coraggio, il tempismo della vostra profezia sulla distrazione di questa nostra città. Amen!

13 Dicembre 2020 – III domenica di Avvento “Gaudete”

 

Dal libro del profeta Isaìa
Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l’anno di grazia del Signore.
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto con il mantello della giustizia,
come uno sposo si mette il diadema
e come una sposa si adorna di gioielli.
Poiché, come la terra produce i suoi germogli
e come un giardino fa germogliare i suoi semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia
e la lode davanti a tutte le genti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.
Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!

Dal Vangelo secondo Giovanni
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Omelia:

Fratelli e sorelle, il succedersi degli eventi liturgici appaia questi interrogativi che sono risuonati nella Basilica e nel nostro cuore, in tutte le chiese.

Martedì scorso nella solennità della Concezione Immacolata di Maria abbiamo riudito la voce del Signore che domanda “Adamo dove sei?”

Oggi l’interrogativo è rivolto al Battista “Chi tu sei?”

Ci vogliamo lasciare anche noi interrogare da queste domande che restituiscono consapevolezza alla nostra vita, alla nostra missione, al nostro situarci in uno spazio che ci affida lo stesso Signore, per essere anche noi qualcosa di diverso dalla profezia, ma non per questo diversi da quella testimonianza assimilabile per molti versi alla profezia, di cui è testimone proprio Giovanni, nel suo ministero alla luce, rivolto alla luce, perché attraverso di lui ci si prepari alla luce, si creda alla luce.

Mi sembra che questo interrogativo possa essere utile per ciascuno di noi nel domandarci quanta consapevolezza e quanta disponibilità ci possa essere nel nostro cuore, nella misura in cui esso si lascia attraversare, interrogare dalla luce che viene, quanto sappia misurare il tempo, riconoscere una transitorietà nell’oscurità nella quale pure siamo abbondantemente immersi, oggi tra l’altro questa domenica della gioia, Gaudete, è una domenica che coincide con la memoria di Santa Lucia, il cui nome programmatico pare arginare la straordinaria brevità del dì rispetto all’invasione di oscurità presentata da una notte che inizierà in realtà finalmente ad assottigliarsi proprio con la nascita del Signore Gesù, in alcune corrispondenze cosmiche che i Padri hanno saputo decifrare come un segnale importante di una armonia del cosmo con la quale accorgerci che gli eventi, gli elementi, la loro forza, i loro movimenti non sono sottoposti al caso ma hanno con sé una implicazione di significato che restituisce ai nostri sensi anzitutto, alla nostra vita psicologica, alla nostra vita sentimentale, e finalmente al nostro spirito la possibilità di leggersi, pensarsi, attraverso il dono della luce e mi sembra che se oggi possiamo dare un sinonimo all’esortazione iniziale della liturgia, rallegrarsi nel Signore, perché il Signore è vicino, è esattamente questa passione di luce che ci abita, che ha trascinato Giovanni nel deserto, in uno spazio abbondantemente abitato da una luce che non fa più distinzione tra cielo e terra, salvo l’oscurità di una notte che rende gelide quelle sabbie che sotto il sole diventano roventi in una sorta di rimbalzo di estremi dove diventa ancora più necessaria la scoperta di una medietà, di una possibilità di abitabilità fra gli estremi che sono spesso anche la cifra del nostro modo di stare in questa nostra vita, o l’eccesso di ilarità, l’eccesso di una gioia che diventa una sfrenatezza inconsapevole, quasi ubriaca, ebbra, che si disimpegna dall’analisi del reale o al contrario una angoscia così profonda da farci precipitare in una notte senza confine, senza limite, in una oscurità dilagante che ci soffoca.

Ecco mi piace collocare queste parole che ascoltiamo stamani dal Signore, in questo contesto esistenziale, perché ci sembra pertinente col tempo che stiamo vivendo, un tempo adesso esposto ad una rassegnazione insuperabile, una rassegnazione che può avere i tratti cromatici con i quali oggi misuriamo la qualità del nostro Natale, abbiamo vissuto l’aridità numerica della rinascita dopo la prima pandemia con la fase 1, la fase 2 e la fase 3, adesso ci dobbiamo accontentare dei colori, come se la gradazione della nostra preparazione al Natale nel mistero del nostro cuore assomigliasse per così dire ai lampeggianti di un semaforo.

Non possiamo accontentarci di questa prospettiva, certo tutti auspichiamo zone cromaticamente tali da renderci più possibile liberi, ma resta questo monito fortissimo, ci si creda o non ci si creda, a come contrastarlo, della pandemia in una esposizione forte alla vulnerabilità della nostra esistenza che rende ancora nello stesso tempo più paradossale e più desiderabile l’invito alla gioia che il Signore ci offre, un invito che Paolo raccoglie, per così dire, attraverso questo monito quasi assurdo per la frenesia dei nostri tempi, in modo particolare dei nostri giorni, questo invito ad una preghiera costante.

Cosa significhi pregare costantemente è la grande domanda che si associa all’altra domanda da cui siamo partiti, chi siamo noi veramente? Giovanni risponde, lo avete ascoltato, con un triplice no, una indicazione anche di metodo estremamente importante, noi che siamo abituati a darci sempre delle affermazioni che vogliano immediatamente, se non presuntuosamente, dare un ritratto immediato di noi stessi, imporci per così dire, attraverso l’agilità di una parola, di una affermazione, la più apodittica possibile, la più incontrovertibile e la meno dialetticamente esposta a critica.

Invece Giovanni si fa strada attraverso una negazione, un metodo mistico si potrebbe quasi dire, che segnala come nell’interlocuzione a distanza con i farisei la via del Battista è quella di suscitare una ricerca, un interrogativo ancora più profondo, non basta interrogarci chi sia Giovanni il Battista, la vera domanda è domandarci in funzione di chi noi oggi incontriamo il Battista, e potremmo aggiungere per estensione, in funzione di chi vale la nostra vita, di quale luce siamo al servizio, se riconosciamo che c’è una eccedenza prima e dopo di noi, di cui la nostra vita dovrebbe coraggiosamente e umilmente riscoprirsi come segno, come rimando simbolico, in una dinamica traslazione di quello che noi, prima ancora di essere, non siamo, e scoprendo quello che non siamo, possiamo attingere alle energie necessarie dello Spirito per diventare quello che dovremo essere. Non sono giochi di parole fratelli e sorelle, segnala questa configurazione a tappe, si direbbe quasi, del nostro diventare persone come il Signore ci vuole, che sappiano essere nello stesso tempo Elia, nello stesso tempo profezia, nello stesso tempo il Battista, nello stesso tempo testimonianza, fino ad arrivare all’uomo perfetto che è in noi e cioè il Signore Gesù, perché questo è l’approdo a cui arriva una mistica della negazione, fratelli e sorelle, cioè una mistica che non si accontenta, e non potrebbe essere mistica in effetti, di una immediata affermazione, ma genera una inquietudine che ci lascia scavare dentro dalla forza dell’interrogativo. Per questo recuperiamo la domanda con la quale il Signore si è messo alla ricerca di Adamo, “Dove sei?”

Ferito dal suo peccato, ferito dalla sua affermazione immediata con la quale egli, credendo alla proposta seducente del diavolo, ha pensato di affermare sé stesso immediatamente. “Sarete come Dio.”

Questo come è un come fallimentare perché diventare come Dio significa allontanarci inevitabilmente dal Dio con noi nella misura in cui gli facciamo spazio fratelli e sorelle.

E’ interessante come le regole grammaticali, per così dire, l’attenzione sintattica, l’analisi logica si direbbe, ci aiutino ad entrare nella profondità di queste parole; viene alla memoria un meraviglioso discorso di Papa Benedetto a Parigi quando egli ci ha invitato a ripercorrere questa passione monastica per la filologia, per la grammatica, per l’erudizione, che per noi sono metodi con i quali elevare la nostra parola, non per affermare noi stessi ma al contrario per incontrare quel Dio che ha rotto il silenzio ineffabile del suo mistero per parlare le nostre parole, per usare la nostra sintassi, per usare la nostra grammatica, per scendere, Lui sì, al nostro livello e questo incontro sponsale è un incontro che eleva la nostra condizione umana nella misura in cui scopre la bellezza, la sfida, la necessità di interrogarci su queste regole che svelano delle connessioni importanti, non il presuntuoso come ma l’affascinante dove e il che cosa rappresenta  la nostra condizione umana in rapporto davvero al grande mistero che ci inabita, fratelli e sorelle, e che si riassume lo ripeto, in questa dimensione servizievole della luce di cui si è fatto testimone il Battista, desiderandola, preparandosi ad essa.

Noi ci rendiamo fratelli e sorelle ancora conto che non può bastare ai nostri cuori la luce del giorno brevissimo che stiamo attraversando, tanto meno ci può bastare la luce artificiale che siamo in grado di produrre, provvidenzialmente consumando meno con i led, ma spesso è una luce di cattiva qualità, anche la sorgente luminosa non è bella, allora dobbiamo andare alla ricerca di un’altra luce, fratelli e sorelle, e questo oggi, in questa domenica della gioia la parola inaugura questa dimensione prospettica e lo facciamo fratelli e sorelle anche riscoprendo, alla luce della parola profetica di Isaia, due dimensioni, una che alimenta un compiacimento buono nei nostri cuori, lo avete ascoltato, si tratta di rivestirsi di una luce preziosa, quasi un gioiello un diadema, Dio ci vuole belli, fratelli e sorelle, lo dobbiamo dire con grande forza, contro ogni squalificazione della condizione umana e anche alle volte contro ogni squalificazione della grande parola che il Vangelo veicola sulla nostra condizione umana, come se fosse una parola di univoca mortificazione, la parola del Signore ci parla di diadema, di abiti sponsali, meraviglioso questo!

Ci prepariamo all’incontro col Signore rivestiti di una sponsalità fatta di bellezza di dignità di decoro, è chiaro che ognuno  di noi deve trovare le applicazioni di queste parole per andare dritti al cuore della nostra vita dove invece c’è bruttezza, c’è perdita di armonia c’è asimmetria, c’è mortificazione, nel senso brutto di questa espressione se mai ne può avere uno bello.

E d’altra parte tutta questa bellezza si potrebbe aggiungere, dobbiamo aggiungerlo, sempre con Isaia, è al servizio di una relazione che dia speranza a chi soffre, che dia orizzonti di verticalità a chi è nella povertà e nella miseria, a chi sta perdendo drammaticamente, giorno dopo giorno, speranza, allora ecco in questo la grande visione di ciascuno di noi per non sentire questi personaggi che il tempo di Avvento ci fa incontrare come relitti di una archeologia dello Spirito che certamente tornare ad accendere in questi giorni nei nostri presepi, ma sentendoli molto remoti da uno stile esistenziale, da una passione cordiale, da una inquietudine intellettuale che ce li rendono ineliminabili dall’orizzonte della completezza della nostra umanità.

Cosa posso diventare? Diciamo meglio come posso diventare uomo e donna di Cristo senza lasciarmi attraversare dall’inquietudine del Battista, senza lasciarmi scomodare dalla profezia di Isaia, senza fare che la mia vita non diventi testimonianza, non di una oscurità nella quale mi riparo e mi nascondo come Adamo, ma al contrario una luce nella quale la domanda del chi sono diventa accelerazione di interrogativi sempre più grandi e di risposte inevitabilmente sempre più parziali.

Ecco questo mi sembrano le vie che la parola del Signore ha suggerito alla mia povera lettura, le condivido con passione con ciascuno di voi, cercando di radicare sempre più il mistero della gioia, la vocazione alla gioia, perché la gioia di cui si parla oggi non è la serenità psicologica delle nostre pubblicità natalizie, ma è una gioia intesa come mistero e come vocazione, con la quale riscoprire questa progressione cristica che fa morire l’uomo vecchio in noi e ci fa costantemente rinascere, attraverso i percorsi sofferti e contorti che Giovanni Battista non ha avuto paura di affrontare, anche per ciascuno di noi, oggi. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia è scattata nel dicembre 2020 da don Matteo Ortu a Siamanna (Oristano)

Condividi sui social