Omelie

L’omelia del Segretario di Stato Sua Eminenza il Cardinale Pietro Parolin in occasione della chiusura della Porta Santa e del Millennio di San Miniato al Monte

OMELIA A SAN MINIATO AL MONTE PER LA CHIUSURA DELLA PORTA SANTA AL TERMINE DELLA CELEBRAZIONE DEL MILLENNIO DI FONDAZIONE DELLA BASILICA DI SAN MINIATO

27 aprile 2019

 

Ap 21,9b-14; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-6

 

Cari fratelli e sorelle,

 

L’odierna celebrazione, che chiude i festeggiamenti del millennio di fondazione della Basilica di San Miniato al Monte, costituisce uno sfondo assai suggestivo –  e per certi versi irripetibile –  in cui risuona a noi la Parola di Dio, che ci interpella dalle letture bibliche appena proclamate.

Ci troviamo con estrema evidenza davanti ad un esubero di bellezza, che l’incanto di Firenze e il fascino di questo tempio ci aiutano a percepire con mente e cuore aperti e grati.

I testi della liturgia sono attraversati tutti dalla metafora architettonica: la Gerusalemme celeste (I lettura), le pietre necessarie per l’edificio spirituale (II lettura), le dimore nella casa del Padre (Vangelo); metafora questa che ha nell’edifico della Chiesa una delle sue visibilizzazioni simboliche più pregnante: «La Chiesa è il cielo terreno – recita S. Germano di Costantinopoli – e, in essa, il Dio celeste abita e passeggia»[1]. Il linguaggio liturgico dell’odierna celebrazione, infatti, è impostato sul duplice versante della Chiesa-comunità e della Chiesa-edificio.

Il brano di Apocalisse ci assicura che Dio, alla fine dei tempi, verrà ad abitare con gli uomini in un contesto descritto come una città-sposa, che discende dal cielo, risplendente di luce e di splendore.

Come tutte le metafore è variamente interpretabile, ma, fra tutte, due sono in particolare le possibili identificazioni che catturano oggi la nostra attenzione: la Gerusalemme celeste può essere intesa sia come l’immagine della vita eterna, descritta con le iridescenze più splendenti e luminose, sia come il ritratto più bello della Chiesa, alla quale, tra l’altro, idealmente si rifanno gli edifici sacri del Cristianesimo[2].

Questa città-sposa che scende dal cielo, infatti, da una parte costituisce la pienezza della comunione e della familiarità con Dio che l’uomo godrà nella vita eterna: si tratta di una delle descrizioni più affascinanti del paradiso.

Dall’altra, però, questa città meravigliosa rappresenta pure l’ideale stesso della Chiesa, ossia il compimento più bello della comunità dei credenti, i quali, in qualche misura, desiderano anticiparne la percezione nell’armonia e nella bellezza degli stessi edifici di culto.

Un dato assai curioso è offerto dal fatto che il paradiso finale non è descritto come un giardino, ma come una città. La vita beata con Dio non è la semplice ripresentazione del perduto Eden delle origini, ma si mostra come una città composta di abitazioni costruite da uomini che vivono la familiarità con Dio. Questo dettaglio allude ad una sorta di collaborazione tra Dio e l’uomo: il futuro della vita beata, dunque, non è solo un dono creato da Dio (il giardino), ma è anche il frutto dell’inventiva e del lavoro umani (un agglomerato urbano). Quindi, l’Apocalisse ci sta dicendo che la vita eterna è simile ad una città che necessita dell’apporto di ogni uomo, e, dunque, di ciascuno di noi.

Infatti, ad evidenziare questa cooperazione attiva da parte dell’uomo sono sopraggiunte nella seconda lettura le osservazioni di S. Pietro circa i credenti intesi come «pietre vive» per la costruzione di un «edificio spirituale» (1 Pt 2,5). Tutti noi, a diverso titolo, siamo coinvolti nella edificazione della Gerusalemme celeste. L’edificio, infatti,offre l’immagine plastica di un «cielo» misterioso, quello del regno, e rivolge a tutti gli uomini l’appello pressante a divenire «pietre vive» del tempio cosmico dove «tutto ciò che respira» canta la lode di Dio[3].

Ebbene, il testo di Apocalisse ci consegna la visione di questa città futura, che, curiosamente, è dotata addirittura di dodici ingressi: «A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte» (21,13). L’immagine è fortemente evocativa, perché riesce a coniugare il concetto di universalità sia in senso temporale (abbraccia tutta la storia), sia in senso multietnico (include l’intera l’umanità).

Il senso temporale è presto detto: il numero dodici richiama la storia passata delle dodici tribù di Israele e la storia presente dei dodici apostoli dell’Agnello e della Chiesa.

Il senso multietnico, poi, risulta dal numero eccessivo delle porte. Se, infatti, pensiamo alle città antiche – anche quelle medievali – ci vengono subito in mente le porte fortificate, al massimo quattro, che erano diligentemente piantonate dai soldati giorno e notte per evidenti questioni di sicurezza. Immagino che tutti abbiamo in mente l’unica entrata, bassa e massiccia, della Basilica della Natività a Betlemme: un guerriero a cavallo non poteva certo entrarvi … Nel testo di Apocalisse non vediamo una città che si difende con pochi ingressi ben presidiati; al contrario, intravediamo una città che accoglie “a braccia spalancate” tutta l’umanità. Queste dodici porte sempre aperte, infatti, stanno ad indicare che la Gerusalemme celeste è una città ospitale: vi hanno libero accesso gli uomini di tutte le culture, di tutte le etnie e di tutte le lingue provenienti dai quattro punti cardinali. Nel prosieguo – non riportato nel testo proclamato – si dice: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (Ap 21,25).

La Chiesa terrena, fin da subito, infatti, si è percepita come un’entità che travalica le distinzioni etniche e accoglie ogni uomo e ogni donna. Un richiamo evidente a questa dimensione universale è posto precisamente nel cuore di questa Basilica, che conserva le spoglie non di una persona di origine italica, ma di un martire che viene da Oriente: come ben sappiamo San Miniato è un armeno. In questo luogo, quindi, in qualche modo si ripresenta a noi oggi sia l’universalità temporale (celebriamo i mille anni di fondazione), sia quella multietnica della Chiesa.

Il Vangelo, poi, continuando la metafora architettonica, riporta le parole di Gesù circa le «molte dimore» presenti «nella casa del Padre» (Gv 14,2). Gesù assicura i discepoli dicendo che la sua morte imminente non è un addio, ma è semplicemente un precederli presso Dio per riservare loro un posto, dove li porterà perché restino con Lui per sempre. Nell’immagine delle abitazioni riservate nella casa del Padre si cela, in realtà, la promessa di poter godere una comunione intima con Dio per sempre: come si può notare si ripresenta la medesima idea della dimora e della piena familiarità con Dio presente pure nella visione della Gerusalemme celeste.

L’ultimo elemento architettonico, presente nell’odierna liturgia, è la porta: spalancata solennemente all’inizio di quest’anno giubilare, fra poco sigillata con il rito della chiusura.

La porta è un’altra realtà fortemente simbolica, perché allude alla possibilità di accesso, di passaggio, di ingresso, e rinvia evidentemente a quanto abbiamo sentito poc’anzi nel Vangelo: Gesù si definisce come la «via», vale a dire come la possibilità di accesso al Padre: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessu

Se nei tempi antichi Dio era l’inavvicinabile e l’irraggiungibile, ora, mediante Gesù, Dio lo si può incontrare e con lui si può vivere un’autentica relazione filiale. Sempre nel vangelo di Giovanni, Gesù si autodefinisce come la «porta», ribadendo, così, il medesimo concetto: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).

Fra qualche istante chiuderemo la Porta santa, simbolo della misericordia del Padre che Gesù dona all’umanità. Termina, così, un periodo straordinario, un’esperienza singolare, certo, ma non si chiude affatto la porta del cuore di Dio. Potremmo far nostre le stesse parole con le quali Papa Francesco concluse il Giubileo della misericordia: «Chiediamo la grazia di non chiudere mai le porte della riconciliazione e del perdono, ma di saper andare oltre il male e le divergenze, aprendo ogni possibile via di speranza. Come Dio crede in noi stessi, infinitamente al di là dei nostri meriti, così anche noi siamo chiamati a infondere speranza e a dare opportunità agli altri. Perché, anche se si chiude la Porta santa, rimane sempre spalancata per noi la vera porta della misericordia, che è il Cuore di Cristo. Dal costato squarciato del Risorto scaturiscono fino alla fine dei tempi la misericordia, la consolazione e la speranza[4].

 

Realmente Gesù è la porta per sempre spalancata dell’amore di Dio per noi. Volgendo, infine, il nostro sguardo al Cristo Pantocratore, che troneggia nell’abside che sta dinnanzi ai nostri occhi, vorremmo far nostre le parole con cui un altro autorevole esponente della Chiesa armena, Gregorio di Narek, si rivolgeva alla maestà e alla mitezza di Cristo: «Tu che non sei venuto a perdere le anime degli uomini, ma a donare la vita, rimetti i miei peccati innumerevoli, per tua misericordia. Tu solo, infatti, sei ineffabile in cielo, invisibile in terra: in ogni atomo d’essere, fino agli estremi confini dell’universo. Tu, Principio di tutto, pienezza in tutto, in ogni tutto, Benedetto nell’alto! A Te col Padre, con lo Spirito Santo sia gloria eterna nei secoli.  Amen»[5].

[1] Germano di Costantinopoli, Storia ecclesiastica, PG 98,384.

[2] P. Evdokímov, La teologia della bellezza. Il senso della bellezza e l’icona, Edizioni paoline, Roma 1971, 172: «Fin dagli inizi, tutti i templi cristiani hanno il medesimo disegno che risale alla visione del tempio della Gerusalemme celeste».

[3] Ivi, 177.

[4] Papa Francesco, Omelia della Solennità di Cristo Re dell’Universo per la chiusura del Giubileo della Misericordia (20.11.2016).

[5] Gregorio di Narek, Come croce nella pietra (a cura di R. Fisichella-N. Benazzi), Biblioteca Universale Cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, 94-95.

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