«La Trinità è amica del silenzio»: esperienza e mistero del vuoto. Una riflessione del padre abate Bernardo

«La Trinità è amica del silenzio»: esperienza e mistero del vuoto. Una riflessione del padre abate Bernardo

Meditazioni

«La Trinità è amica del silenzio». Esperienza e mistero del vuoto

Per D. e G.

E intanto lievemente

le monache -poche e invisibili-

preparano per gli ospiti profani,

e le aprono, un seguito di camere,

le stesse dove vissero

la regola e le vive ispirazioni

di quella plenaria solitudine

esse, e prima di esse

le altre innumerabili

che furono a quel macero

nei lunghi secoli dell’eremo

 

e gli ospiti serrati nelle celle

sottratte alla clausura si smarriscono

in quella vuota arnia della pura

ed infima pazienza, la riempiono

dei loro instabili pensieri

e gaudi e turbamenti…

 

Vorrei quasi prendervi per mano per introdurre, con garbata decisione, i vostri cuori nel recinto monastico cui ha alluso l’altissima poesia di Mario Luzi. Li sentireste accolti dalla silenziosa penombra di quell’imprecisato eremo ove la fantasia del poeta immagina che abbia trovato provvidenziale ricetto la piccola carovana di famigliari e compagni che riconduce alla natia Siena dalla remota Avignone il pittore Simone Martini, mistico dell’immagine e raffinato cultore «di variopinte lacche». Un pellegrinaggio simbolico trasfigurato dai bellissimi versi del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini che adesso consigliano anche a noi una sosta notturna nella foresteria dell’asceterio femminile immerso in «quella plenaria solitudine». Forse solo liberando la nostra immaginazione ispirata da tanta bellezza sillabica possiamo meglio percepire quale dono prezioso sia il silenzio, sposo fedele di quella solitudine che riporta il cuore a misurarsi con se stesso, con le sue fragilità argillose, le sue durezze petrose, ma anche con le sue promettenti eccedenze che svelano, se si è finalmente capaci di coglierne il pulsante riverbero, quanto avesse ragione Pascal nel ricordarci che «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Ma tanto altro ancora può insegnarci questa sosta notturna e silenziosa «in quella vuota arnia»: lì ci è davvero facile smarrirsi privi come siamo del nostro rassicurante rumore di fondo, delle mille e mille loquele che ovattano col niente l’orlo che si apre sugli scoscesi calanchi del nostro abissale pensare. Eppure è prezioso il vuoto: in quell’austera geometria claustrale il bulino del silenzio ha saputo incidere la pietra, intagliare archi e dunque asportare l’inessenziale, il superfluo, il vaniloquio. Ma noi, noi che siamo «senza pura ed infima pazienza», al taciturno sostare «nelle celle sottratte alla clausura» preferiamo evadere in un virtuale altrove, sedotti come siamo dai nostri «instabili pensieri e gaudi e turbamenti», pronti a distrarci, a dissiparci, a dimenticarci sottostando alla dittatura del caos materico e sonoro. Ma la notte avanza, il «seguito di camere», come fosse ospitale alveare, accoglie il nostro riposo e nell’assopirsi ci potrebbero forse tornare in mente le parole rivolte nel 2011 da papa Benedetto ai solitari e silenziosi Certosini di Serra San Bruno, la cui vita appartata egli avrebbe più tardi imitato: «Il progresso tecnico ha reso la vita dell’uomo più confortevole, ma anche più concitata, a volte convulsa. Le città sono quasi sempre rumorose: raramente in esse c’è silenzio, perché un rumore di fondo rimane sempre, in alcune zone anche di notte… I più giovani sembrano voler riempire di musica e di immagini ogni momento vuoto, quasi per paura di sentire, appunto, questo vuoto… Alcune persone non sono più capaci di rimanere a lungo in silenzio e in solitudine. Ho voluto accennare a questa condizione socioculturale, perché essa mette in risalto il carisma specifico della Certosa, come un dono prezioso per la Chiesa e per il mondo, un dono che contiene un messaggio profondo per la nostra vita e per l’umanità intera. Lo riassumerei così: ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” cui accennavo prima, per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile… Dio, Creator omnium, attraversa ogni cosa, ma è oltre, e proprio per questo è il fondamento di tutto. Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo». Nessuno meglio del papa monaco Benedetto ha saputo sintetizzare il paradosso monastico che cerca nel silenzio, nel vuoto, nella stasi l’esperienza ri-fondativa della Parola, della totalità e di quel dinamismo che, rivelandosi nel ritmo serrato della liturgia, trasforma il nostro tempo statico, ripetitivo e sostanzialmente senza qualità in arditi prolungamenti di una inesausta storia della salvezza. Il sommamente utile, mimetizzato, anzi custodito e quasi presidiato dall’apparente inutilità della vita claustrale, è intuìto anche da quegli ospiti che nel silenzio e nella pace siderale di quel cenobio riscoprono l’arte preziosa dell’ascolto, il cui apprendistato è tanto più fecondo quanto più convinto si fa il nostro ripudio di strepiti e di vocalizzi mendaci e infruttuosi perché scissi dalla più vera realtà. Al risveglio, quando il silenzio cede al suono della campana, voce imperiosa del Signore che brama ascoltare il canto dei monaci e delle monache «ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami» (Dante, Paradiso X 140-1), quei viaggiatori, «gli ospiti serrati nelle celle», avranno finalmente capito perché «la Trinità è amica del silenzio», come annotava con ispirata sapienza il monaco medioevale Adamo di Perseigne: nient’altro se non il silenzio è infatti lo spazio cavo, ma anche il vitale perimetro, anzi la siepe claustrale entro cui le tre divine Persone possono amarsi, ascoltarsi e obbedirsi.

Bernardo Francesco Gianni OSB

Abate di San Miniato al Monte

 Firenze, 2 marzo 2022

memoria di santa Agnese di Boemia

La fotografia è di Mariangela Montanari ed è stata recentemente scattata in una abbazia di monache benedettine

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