«Io chiesa madre di tutte le altre». Una meditazione del padre abate Bernardo per Pasqua 2019

«Io chiesa madre di tutte le altre». Una meditazione del padre abate Bernardo per Pasqua 2019

Meditazioni

 

E’ la mia voce ora che ascoltate, sono

Santa Maria del Fiore.

Mi volle la città fervente

alta sopra di sé,

sopra qualsiasi altra

delle sue grandi basiliche

e le sue umili parrocchie

e Santa Reparata che custodisco in me.

Grande mi concepirono i mercanti

e il popolo minuto.

Ebbero di me una visione grande

Arnolfo, Giotto, Ser Filippo,

assistettero alla mia nascita, essi,

propiziarono la mia crescita,

un popolo di artefici si adoperò per me nei secoli,

l’Opificio è ancora aperto;

non sarò mai compiuta.

Si tenevano fra le mie mura nascenti

i dialoghi che avete ora ascoltato,

non erano neanch’essi profani,

crescevo su me medesima,

mi alzavo sopra la città per opera della pietà comune

e di spicciola pazienza.

Chi sono gli operai, gli artefici

e gli artisti che mi hanno messa al mondo ed al suo

onore?

Ne avete uditi alcuni, altri innumerevoli

hanno parlato e taciuto, un popolo mi ha spinto

con la sua fatica e la sua fede

talora anche blasfema così in alto.

Ma non voglio tacere l’abbandono

nel quale fui spesso lasciata

in talune delle mie lunghe epoche.

Ricordo anche lo spregio in cui mi hanno tenuto

mischiandomi a profani avvenimenti,

talora criminali e anche l’insulto

del rispetto esteriore delle parate.

O mia città che ho sollevato al cielo

e talora m’ha invece trascinato in basso!

Uomini, persone: generazioni ne ho vedute molte

succedersi o variare da quelle originarie

e via via dalle seguenti. Nondimeno

l’anima di Firenze si risveglia

e si riconosce in me, riprende

fierezza dalla mia presenza.

Sono quelli i momenti più profondi.

Eccomi, rimbombo del mio silenzio,

tumultuano in esso le voci e le parole

che vi furono levate,

si affacciano, convengono

qui i santi che hanno abitato queste mura

o pregato a questi altari,

e coloro che li hanno eretti o dedicati.

Da qui ha inizio ancora una volta

nei secoli l’anno giubilare. Si presenta

il millennio alle mie porte a prendere sostanza di futuro

e ad apportarne alla nostra incertezza e indecisione.

 

Opus Florentinum è tra le altre cose una fantasiosa e mirabile verbalizzazione di innumerevoli dialoghi fra i canonici, il popolo minuto, gli artisti, i muratori, coloro che hanno eretto colei che ha preso la parola in questo nostro incontro pasquale, con una autoconsapevolezza lucida, sofferta, ma come avete ascoltato dall’explicit di questi versi, piena di speranza, in questi tempi di incertezza e indecisione.

Una cattedrale parla, nella fantasia poetica di Mario Luzi e una cattedrale schiude le sue porte perché l’ascolto del poeta, ma anche il nostro, così come la nostra preghiera e la nostra fantasia, la nostra memoria storica, possa riappropriarsi di un luogo che inevitabilmente abita da 24 ore, in modo sofferto e nello stesso tempo grato e accorato, le nostre coscienze, i nostri pensieri.

Credo che ognuno di noi abbia per un attimo immaginato e temuto cosa sarebbe della nostra cattedrale se le stesse feroci fiamme che ieri hanno distrutto il tetto antico della Cattedrale di Notre Dame, infierissero sulla ben più preziosa, ben più delicata, ben più -se così posso dire- unica e universale cupola del Brunelleschi. Un sentimento di orrore pervade i nostri cuori, i nostri sentimenti, senza attenuare la solidarietà che proviamo nell’immaginare il cuore di Parigi, ma nello stesso tempo questa coscienza, interrogata dalla forza e dalla delicatezza al contempo di questi luoghi, mi ha ispirato nel proporvi come meditazione pasquale di quest’anno uno dei tanti frutti della Pasqua e cioè quel Dio che, in Gesù Cristo si fa uomo per attraversare la storia e che nel Risorto, vincendo le leggi della natura, attraversa le pareti di una casa dove otto giorni dopo sono rinchiusi per paura i discepoli, perché donando loro lo Spirito Santo e il respiro di amore inviato dal Padre potessero vincere quella paura, spalancare le porte ed avviare la loro missione di evangelizzazione.

E’ lo stesso Risorto che dimora, dopo averle attraversate nel cuore della città, dimora proprio sotto le volte altissime di tutte le cattedrali del mondo, in una dimensione di centralità, di importanza, di qualificazione di uno spazio urbano, dove la cattedrale diventa in modo ancora più forte, maestoso, ma nello stesso tempo, come avete ascoltato, in modo anche più accorato e consapevole, il luogo del giudizio del Signore, della presenza del Signore, dell’ispirazione del Signore e di tutto quello che è per il Signore il popolo di Dio, senza escludere nessuno, lo avete già immaginato in queste parole forti con cui la cattedrale si riconosce davvero non solo il cuore, ma anche il polmone, dove rimbomba il silenzio e dove trovano dimora le voci, quelle importanti così come quelle inutili, di una città intera.

Ecco, mi piace con voi riflettere su uno dei tanti segni dell’amore di Dio per il suo popolo, che non è soltanto quello della bellezza, generalmente tutte le Cattedrali sono il massimo sforzo di bellezza per una città, soprattutto le città della civiltà europea cristiana, quella che grandi pensatori hanno iniziato a riconoscere sempre meno significativa nel trascolorare del tempo, fino quasi a profetizzare incendi e distruzioni di cattedrali quali simboli di un deteriorarsi di questo respiro spirituale delle nostre città.

Ma noi non siamo qui a profetizzare sventure o a diagnosticare quello che lo spirito del Signore non potrà mai permettere e cioè la morte della speranza, noi già in piena luce pasquale semmai siamo insieme per annunciare e testimoniare al contrario la morte della morte e a riconoscere quale frutto dell’amore di Dio anche l’ingegno degli artisti che, come la nostra cattedrale, hanno fatto fiorire dal seme pasquale un germoglio di speranza nella bellezza di quella cattedrale intorno alla quale si tesse l’intrico delle strade, delle case, della vita intera di un popolo e di una città.

Se poi siamo consapevoli che la nostra basilica e non la cattedrale, ma la nostra sì, compie, anzi ha compiuto ormai mille anni, ecco che i versi conclusivi di Mario Luzi risuonano ancora più convenienti, ancora più pertinenti, ancora più evocativi e capaci di ispirare speranze pasquali, per questo le rileggo con forza : “Da qui ha inizio ancora una volta nei secoli l’anno giubilare. Si presenta il millennio alle mie porte a prendere sostanza di futuro e ad apportarne alla nostra incertezza e indecisione”

Potrebbe essere, se mi permettete, la cifra e la sintesi di tutto il nostro millenario, certo anche uno sguardo alla storia, alla memoria, nella consapevolezza che San Miniato in definitiva, non troppo diversamente dalla cattedrale, è l’espressione architettonica della sponsalità con cui Dio si è legato al suo popolo per sempre, donando a quel popolo quale gioiello, quale anello, la pietra preziosa che è quella cattedrale e la nostra basilica.

Ma al di là della memoria grata sta per noi ancora più importante l’urgenza di elaborare tracciati di speranza, argomenti di speranza, prospettive di speranza, in una espressione che la grande arte di Mario Luzi sa intuire “sostanza di futuro”: una bellissima immagine, la sostanza di futuro, necessaria in questi tempi di incertezza e di indecisione.

Per questo ci serve, per così dire, non voglio mancare di rispetto, l’immagine che portiamo nel cuore terrorizzato, della Cattedrale di Parigi, non certo per un vigliacco compiacimento “è successo a loro e non a noi” , ma al contrario per dire che nonostante quelle fiamme e quella distruzione proprio la cattedrale di Notre Dame, come ogni Cattedrale, nella consapevolezza non solo della sua fragilità strutturale, ma soprattutto, come ci ha insegnato adesso Mario Luzi, per la fragilità che l’attraversa dal di dentro, resta un mirabile segno di speranza. Perché resta un mirabile segno di speranza?

Abbiamo bisogno ovviamente di un ancoraggio che ci riporti non solo alle pur bellissime e biblicamente nutrite riflessioni poetiche di Mario Luzi, ma abbiamo bisogno della stessa Parola di Dio e naturalmente non può che venire in mente un episodio che ci è ben noto nella nostra memoria evangelica. Giovanni 2, 13 e seguenti

 

Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. 15Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». 17I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

 

Ecco credo che queste parole, che andrebbero certamente meditate, spiegate, anche per la delicatezza delle molteplici interpretazioni circa le ragioni del gesto fortissimo col quale il Signore allontana i mercanti da questo tempio, ma che ci porterebbero lontano, quello che adesso vogliamo che risuoni nei nostri cuori, anche davvero come mirabile leva di speranza pasquale sono queste ultime parole del Signore Gesù e la vertiginosa assimilazione del suo corpo a quel tempio che, costruito in tantissimi anni, il Signore Gesù in realtà lo fa ricostruire in tre giorni, dove è evidente la sostituzione che fa dello stesso corpo, della stessa presenza del Signore Gesù, uno spazio ove finalmente poter adorare il Padre in spirito e verità, alludo ancora naturalmente al Vangelo di Giovanni e qui fratelli e sorelle, è importantissimo recuperare tutta la forte pregnanza teologica con la quale il linguaggio simbolico di San Giovanni ci invita nello stesso tempo, come vero simbolo, a prendere in tutta la sua plastica evidenza le parole, le immagini che Gesù impiega senza togliergli un’oncia del loro significato e nello stesso tempo anche a traslare tutto questo in una prospettiva che quasi universalizzi queste parole. E allora qual è il vero tempio in cui incontrare e adorare in spirito e verità il Padre se non questo amore che, facendosi carne nella nostra storia, pianta le sue tende lungo il nostro cammino, perché questo spazio che tante volte siamo tentati di misurare come un caos che ci divora, ha un epicentro, ha un orientamento, ha una direzione, ha una meta, ha un approdo, di cui il farsi carne, corpo e tempio del Signore Gesù svela questa dimensione, vorrei quasi dire provocatoriamente, logica, inscritta nella creazione e che la nostra poca fede troppe volte dimentica, fermandosi a tutto ciò che è cangiante, vulnerabile, trasferibile, manovrabile.

Ricordatevi questi versetti fondamentali di Mario Luzi “la nostra incertezza e indecisione” e pensate al paradosso evangelico per cui l’incertezza della presenza del Signore Gesù, che di fatto tale si rivelerà nella sua drammatica sorte crocifissa, è al contrario riletta in una lente di amore la massima certezza che è data alla condizione umana di sentirsi e di riconoscersi amata da un Dio che fa dell’incertezza della vicenda storica del Signore Gesù, il massimo della sua presenza di amore nei riguardi di ciascuno di noi.

Così importante, così fondamentale, così decisiva da sostituire qualsiasi altra mediazione, fosse anche quella importantissima del tempio di Gerusalemme. E’ Gesù il nuovo tempio! Lì si incontra tutto, l’umano e il divino si abbracciano in un simbolo pieno e decisivo, cielo e terra si incontrano nel tempio del Signore Gesù, la luce e la penombra, lo spazio e il vuoto, il Padre e lo Spirito Santo nel Figlio trovano, e nel suo corpo, lo spazio e il tempo ove manifestarsi e raggiungere la vita di ciascuno di noi.

Ecco allora che in questa prospettiva pasquale noi entriamo nei templi, nelle nostre cattedrali, nelle nostre chiese, io credo, in una prospettiva che non può assolutizzarle, ma sempre lasciarsi leggere come un simbolo che ci rimanda ad altro e questo altro è la pienezza corporea del Signore Gesù che noi assaggiamo, gustiamo, nella bellezza, nella salda logica architettonica con cui sono costruite le cattedrali, le chiese, ove cioè i pieni e i vuoi, la luce e l’ombra, la risonanza più o meno felice del suono, il riverbero del canto, l’espandersi del profumo, ci dicono e nello stesso tempo non ci possono dire il tutto di Cristo e quindi continua, anche all’interno di questi spazi, questo bellissimo e invincibile e inquietante carattere pellegrinante della nostra vita.

Anzi è proprio quando si varca l’ingresso di luoghi come San Miniato che inizia il vero pellegrinaggio, non tanto la strada fatta per arrivarci, ma tutto quello che iniziamo a percorrere lì dentro, fra vita, morte e speranza pasquale, lo spazio della terra, l’oscurità degli inferi, l’approdo alla Gerusalemme celeste. Non è questo il pellegrinaggio che più inquieta e interessa il cuore e l’intelligenza dell’uomo e della donna? Quali sono gli estremi della nostra vita.

La basilica, la cattedrale con i suoi perimetri simbolici e reali allo stesso tempo ci invita a misurarci con questo confine, accoglierne anche l’approssimazione, accoglierne anche l’insufficienza, per avviare quello che il simbolo, che sempre dà a pensare, come dice Ricoeur, pure permette lo sconfinare….lo sconfinare.

Non mi basta l’immediatezza di quello che vediamo, il nostro cuore anche nella vastissima cattedrale di Santa Maria del Fiore, non può starci in tutto il suo infinito e sconfina, e lo può fare, fratelli e sorelle, perché la nostra vera cattedrale è il corpo del Signore Gesù.

Capite su quale crinale ci stiamo avventurando? Un crinale inquieto, dinamico, come tutti i veri simboli capace quindi di disorientarci e nello stesso tempo di farci sentire a casa. Perché San Miniato, mi riferisco intanto a questo luogo che conosciamo tutti, ci fa sentire a casa, eppure come vorrei mostrarvelo nelle sue oscurità, quando tutto è buio, quando cioè, pur in un luogo dove ci sentiamo a casa, ha questa capacità di, non dirò terrorizzarci, ma certamente inquietarci e ricordarci che come già detto, non può esistere spazio costruito da mani d’uomo pur nella sua altissima densità cristologica a dare definitiva dimora al nostro infinito, alla nostra sete di infinito.

E allora anche questo è Pasqua, carissimi fratelli e sorelle, la vicenda architettonica drammatica ieri, della cattedrale di Notre Dame andrà necessariamente riletta alla luce di questi versetti che promettono Pasqua e ricostruzione, certo anche da un punto di vista materiale, è evidente, ma soprattutto la consapevolezza che il compito di colui che si ritiene e desidera essere discepolo del Signore Gesù non potrà mai dirsi concluso nella costruzione dell’organismo ecclesiale colto nella sua dimensione esteriore, perché in realtà anche il nostro cuore è una cattedrale in perenne costruzione, decostruzione, e ricostruzione, per un’ulteriore bellissimo passaggio che la Pasqua ci permette di vivere in prima persona e di celebrare. Lo faremo e lo facciamo in modo particolare quando battezziamo, quando siamo battezzati, quando cioè la nostra vicenda personale di fatto si innesta nella vicenda del corpo del Signore Gesù, del suo essere organismo ecclesiale in cui la vita di ciascuno di noi diventa il mattone, la pietra viva che rende possibile l’edificazione di questo organismo architettonico simboleggiato dalle nostre cattedrali, dalle nostre basiliche, dalle nostre chiese, proprio nella loro alterna fortuna, fatta di abbellimenti ma anche, come è successo ieri, di catastrofici e inopinati e velocissimi fallimenti.

Lo avete ascoltato Mario Luzi, anche questo non ha taciuto: “ma non voglio tacere l’abbandono nel quale fui spesso lasciata in talune delle mie lunghe epoche (…) O mia città che ho sollevato al cielo e talora m’ha invece trascinato in basso!” dove questo movimento fra l’altezza e la sprofondità evocata da Mario Luzi, come vedete, non solo evoca alterne vicende architettoniche, decorative, stilistiche che la nostra cattedrale può aver conosciuto e subito, ma evoca tutto quello che possiamo meglio intuire di nuovo aderendo alla parola di Dio. La prima lettera di Pietro, il Cap. II ci permette di intuire come in questa dimensione simbolica dove la realtà è continuamente trasfigurata da una ulteriore ricchezza di significato, si applica e si legge e vale anche per ciascuno di noi. Dice Pietro: [4]Stringendovi a lui, – cioè Cristo- pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, -attenzione!- [5]anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo.

Dove in questa prospettiva, comprendete molto bene, che il tempio, che è il corpo del Signore Gesù, distrutto molto più violentemente delle fiamme di Notre Dame dalle percosse, dagli oltraggi, dai chiodi, infine dalla spada conficcata nel costato nel Signore Gesù è in realtà un corpo cui pure noi partecipiamo, un corpo che proprio il battesimo inaugura come reale partecipazione a quell’organismo interpersonale che è la Chiesa, costituito dalle pietre vive che sono ogni singolo battezzato. Sono sicuro di dirvi cose che appartengono alla vostra consapevolezza di fede e di esperienza spirituale, so di non dirvi nulla di nuovo, ma sempre lungo questo crinale che da un lato ci fa contemplare la vicenda di vari organismi architettonici che costituiscono la ricchezza della nostra memoria storica, spirituale, culturale, dall’altro anche le alterne vicende della Chiesa nella sua capacità di farsi splendido riverbero della santità di Dio, ma anche suo altissimo e sconfortante tradimento; anche il recente intervento di Papa Benedetto ci riporta tutta la sua drammaticità, complessità e di fatto nell’impossibilità di una unilaterale interpretazione delle cause, delle ragioni, di tanto perverso dissesto, ci riportano alla grande grazia pasquale, alla dignità che ciascuno di noi ha nella libera scelta di accogliere lo spirito del Risorto e di lasciarsi modellare, per essere decorazione che non smentisce il logos costruttivo dell’edificio ecclesiale, oppure invece restare pietra dura, inerte, refrattaria allo scalpello dell’artista, volutamente e superbamente paga di sé stessa e quindi indisponibile ad essere concio che si adatta ad altri conci, fregio che si innesta in altri fregi. Recuperiamo così la consapevolezza del peccato come bruttezza, come scadimento rispetto a quel modello che il Padre ci ha offerto per essere veramente noi stessi e cioè il più bello fra i figli dell’uomo, Gesù, per l’appunto, dove Cristo è tutto, è l’organismo ecclesiale, il logo che sovraintende alla costruzione della chiesa, il suo metro, la sua misura, il suo stile, la sua bellezza, cui noi possiamo partecipare intonati nel canto o stonati nella nostra pretesa di cantare senza ascoltare, lasciando che il nostro corpo profumi della santità di Cristo come gli incensi più rari o al contrario l’aroma amaro dei nostri risentimenti, delle nostre indigestioni, nelle cose che bramiamo di possedere senza condividere e ancora, l’incapacità di essere spazio di accoglienza dove risuona in tutto il suo necessario splendore quella parola che quasi implora quei vuoti incredibili che, soprattutto le cattedrali gotiche, generano perché l’uomo nello stesso tempo contempli la vastità della rivelazione, il cielo che a malapena ospita la rivelazione e nello stesso tempo però come di fatto non basti tutto quello spazio e la luce che attraversa, generando ombre in quelle cattedrali ci invita di nuovo a sconfinare a andare fuori, oltre.

Ecco, tutta questa dinamica vale per il corpo di Cristo e dunque vale anche per il corpo di ciascuno di noi , per questa microscopica cattedrale che è il nostro cuore, perché la poesia di Mario Luzi è davvero preghiera con la quale rileggere, in una sorta di quaresimale esame di coscienza, quanto siamo stati capaci di svettare in alto portando in alto la città o al contrario quanto l’abbiamo precipitata con il peso delle nostre azioni.

Tutta questa prospettiva molto evocativa vogliamo proprio ripercorrere nella consapevolezza pasquale che non esiste distruzione personale ed ecclesiale che la luce del Risorto non possa di nuovo trasfigurare, di nuovo riedificare, insisto molto sul tema della speranza, devo dire che comprensibilmente, sull’onda emotiva, nel rischio che la nostra maldestrìa inevitabilmente ci fa correre nell’uso delle piattaforme sociali, anche autorevoli uomini e donne di chiesa ieri, si sono lasciati andare un’ora dopo o anche pochi minuti dopo la vicenda di Notre Dame in improvvide diagnosi, davvero improvvide diagnosi sulla fine dell’Europa, sulla fine del cristianesimo in Europa, su una sorta di fuoco catartico che chissà quale provvidenza ha acceso per un bagno di purificazione delle nostre coscienze. Ecco, lasciatemi dire che la preghiera non è mai e non deve mai essere solo emozione, è una meditazione, cioè noi a un certo punto ci fermiamo, preghiamo, patiamo, e prima di aprire bocca, proviamo un pochino ad ascoltare il Signore. Se lo ascoltiamo le nostre emozioni, non dico passino, ma quanto meno trovano una morphé, una forma, che è quella di Cristo, noi non siamo i giudici della storia, noi non sappiamo niente di quello che il Signore magari sta già facendo, come sa far lui, fermento nella massa in Europa, nel cuore della gente, nel cuore dei nostri popoli, io credo che davvero dobbiamo iniziare dalla cattedrale del nostro cuore, spengere lì l’incendio quando c’è, e c’è spesso, almeno nella mia e non è fuoco di passione evangelica, spesso è proprio fuoco di ira, dei peggiori sentimenti, di inimicizia, di odio, di presunzione e via di seguito e avere sempre in mente queste parole con cui il Signore Gesù ci lascia intuire che lui è molto più forte di qualsiasi tempio costruito da mani d’uomo.

I giudei pretendono dei segni non troppo diversamente da come Pilato nel Vangelo di Luca era curioso di vedere dei miracoli nel Signore Gesù per verificare la singolarità del personaggio, ma Gesù non è un personaggio, non è un prestigiatore, non gli dobbiamo e possiamo chiedere dei segni, dobbiamo solo implorare il dono della fede e saperci leggere, come questa cattedrale si legge, si sa leggere, ha la consapevolezza di essere un organismo vivo, costruito tenendo come misura alta della sua bellezza Cristo ma sapendo anche di essere un edificio costruito con cose di questo mondo, il mio linguaggio è altrettanto simbolico, noi siamo fatti di cose di questo mondo quindi c’è, inscritta in noi, una logica disgregante, deformante e allora ecco, chiediamo al Signore di saper leggere gli eventi, come si dice oggi, in una luce pasquale.

E’ troppo più facile essere testimoni di sventure, profeti di fallimenti esistenziali soprattutto altrui, è molto meno facile guardarci in profondità, ecco, e mettere a nudo davanti al Signore le nostre di sventure architettoniche, ecco, i nostri archi venuti giù per calcoli errati, e scelte frettolose dei materiali, degli ingredienti e così via.

La bellissima colletta, cioè la preghiera iniziale della Messa per la dedicazione della basilica lateranense dice : “O Padre che prepari il tempio della tua gloria con pietre vive e scelte” -sentite come continua questo bellissimo gioco metaforico. Si sta celebrando la basilica lateranense, la cattedrale madre di tutte le cattedrali, ma alla liturgia gliene importa il giusto della chiesa cattedrale lateranense, ma soprattutto gli sta a cuore la vera cattedrale lateranense che son le persone che ci vanno a pregare, le quali se non sono ispirate dalla bellezza della chiesa che le ospita, a sentirsi pietra viva, la cattedrale diventa davvero un museo, davvero tradisce la sua missione, ma è inscritto nella nostra distrazione, nella nostra incapacità, che in realtà il cristianesimo raccomanda di leggere il tutto, la sintesi, il simbolo, tutto ciò che sta insieme con la forza dello Spirito Santo e il suo discernimento e che si compendia nel corpo del Signore Gesù, dentro il quale c’entra anche la morte. Noi celebriamo anche questo fallimento, ma non ci fermiamo alla morte, non possiamo fermarci alla morte, ci fidiamo di questo suo dirci che in tre giorni verrà ricostruito perché abbiamo creduto al suo amore e all’amore di chi ce lo ha donato il Signore Gesù, quindi il nostro amare le nostre chiese, le nostre cattedrale, le nostre basiliche non sia mai disgiunto da questa fortissima tensione cristologica, da qui nasce il rispetto, la cura, l’amore per le pietre che ospitano la nostra preghiera che diventa poi la consapevolezza di essere noi per primi, come dice questa bellissima preghiera “pietre vive e scelte” che “devono implorare il Padre perché effonda sulla Chiesa il suo Santo Spirito affinchè si edifichi il popolo dei credenti che formerà la Gerusalemme del cielo” Vedete come questa relativizzazione del luogo, dello spazio, del tempio, è quanto mai preziosa perché schiude al futuro e questo è bellissimo, quante volte siamo tentati noi chiesa di celebrare i nostri edifici, le nostre strutture, le nostre istituzioni le nostre appartenenze, le nostre culture, le nostre ideologie, pronti a dare la pagella agli altri e quanto invece, come voi intuite, risuona la parola forte del Signore Gesù a coloro che ammirano le pietre belle del tempio: non resterà che pietra su pietra di questo tempio. Ma di nuovo il Signore Gesù non dice questo come profeta di sventura, lo dice perché non si perda di vista il vero tempio che è Lui e che siamo noi, che è la memoria del passato che ci precede, ma è soprattutto il presente che mette in gioco la nostra responsabilità in una prospettiva di speranza significata dalla Gerusalemme celeste e questo in effetti è il grande ministero di San Miniato nella città di Firenze, perché la cattedrale in effetti celebra questo presente cristologico del Signore Gesù che si rapprende, direi proprio così, intorno alla persona del Vescovo, il padre della chiesa locale, la sua cattedra, quindi cogliete questa pur necessaria dimensione di staticità, l’epicentro della chiesa locale, la cattedrale in tutta questa bellissima pregnanza, però attenzione! C’è anche l’altra dimensione, quella del tempo, il futuro evocato da questa preghiera, lo Spirito Santo schiude la chiesa al futuro come ha mirabilmente detto Mario Luzi, la sostanza del futuro, la Gerusalemme che verrà. Ecco perché su Firenze c’è San Miniato e dentro San Miniato c’è quel coro alto che significa questo muoverci verso l’alto perché non ci basta il perimetro della chiesa, dobbiamo avere il coraggio di sconfinare verso una città da fondamenta ancora più salde.

Ecco tutto questo io credo sia un modo per interpretare la Pasqua, almeno quest’anno sento che da un lato la celebrazione ormai prossima alla fine del millenario e se vogliamo vi rientra anche un bilancio complessivo di questo anno insieme che molti di voi hanno sostenuto con la preghiera, la presenza, la partecipazione, tutti voi direi, un anno che lo ripeto aveva di mira, con quella porta santa spalancata che ritrovate nella foto degli auguri, la possibilità di invitare la città intera in un tempio capace di ospitarla perché quel tempio è Cristo, adesso lo capite, e di schiuderla al futuro perché il Cristo è morto e risorto per quella città, per la nostra città.

E d’altra parte in questo invito, in questa celebrazione, in questa prospettiva, con la quale chiudiamo per aprire di fatto il nuovo millenario, l’evento di ieri con quelle fiamme orrende ci mette di nuovo in una dimensione di umiltà, di vigilanza, di consapevolezza che non esiste tempio su questa terra che possa dirsi concluso in sé, che possa pretendere di ospitare una volta per sempre la Shekhinah, cioè la presenza di Dio, come si dice nel mondo ebraico, c’è un suo pellegrinare, un suo eccedere, un suo sconfinare e anche questa è un’immagine cara nella vicenda pasquale, l’esodo, mangiare in fretta perché ce ne dobbiamo andare, seguire una colonna di fumo luminoso che è la gloria di Dio per attraversare il Mar Rosso.

Ecco io vorrei risemantizzare tutto quello che abbiamo visto ieri, non per banalizzare la sventura che colpisce Parigi e che purtroppo la fragilità del nostro patrimonio italiano tante volte già ci ha fatto vivere, io penso a chi ha potuto vivere il dramma di Torino, le vicende dei nostri inarrestabili terremoti e tante altre sventure ancora.

Purtroppo abbiamo la pelle avvezza a queste cose, forse anche per questo possiamo dire nella preghiera e nella fraternità una parola di speranza che coglie tutto il valore di questa memoria storica, ma nello stesso tempo ne sa intuire, in una dimensione pasquale, la provvisorietà in vista di qualcosa di più grande, di più vero, di più bello ancora che non ci dispensa dalla responsabilità qui e ora, ma nello stesso tempo è quella umiliazione che schiude alla vera beatitudine di chi è fedele alla terra senza per questo tradire lo sguardo verso il cielo, ce lo ha insegnato in modo straordinario la poesia di Mario Luzi.

Nella pagine troverete ulteriori riverberi a quanto vi sto dicendo, in modo particolare l’insistenza su questa dimensione simbolica dell’organismo architettonico e direi esistenziale rappresentato dal nesso casa-chiesa-corpo che in Cristo include le vicende architettoniche, le vicende storiche, culturali, ma soprattutto le vicende personali di ciascuno di noi. Solo qualche rapidissimo cenno.

Dice sant’Agostino: “La casa, o meglio la costruzione, richiede fatica. La dedicazione , invece, avviene nella gioia” – i due momenti che fanno appunto di una chiesa la chiesa, la dimensione faticosa della semina, della costruzione e infine la dedicazione che è il momento liturgico festoso in cui quanto si è fatto viene dedicato al Signore, ma questo vale anche per la singolarità delle nostre vite e per la complessità dei nostri rapporti. Il riferimento che vi ho fatto prima alla disponibilità del nostro farci parte di un organismo architettonico più grande. Guardate che bellezza il realismo agostiniano dove teologia e retorica si incontrano per affermazioni bellissime: Mediante la fede i credenti in Cristo diventano materiale disponibile per la costruzione come quando gli alberi e le pietre sono tagliati dai boschi e dai monti -come era successo secoli fa per le capriate di Notre Dame – Quando vengono catechizzati, battezzati, formati sono come sgrossati, squadrati, levigati fra le mani degli artigiani e dei costruttori – vedete l’iter educativo, mistagogico? bellissimo no?, c’è questo farsi in progress della nostra vita in una prospettiva architettonica – Non diventano tuttavia casa di Dio se non quanto sono uniti insieme dalla carità -non basta l’eccezionalità del singolo pezzo ma è l’insieme armonico che fa l’edificio- Questi legni e queste pietre, se non aderissero tra loro con un certo ordine, se non si connettessero armonicamente, se collegandosi a vicenda in un certo modo non si amassero, nessuno entrerebbe in questa casa -l’accoglienza, tante volte noi usiamo questa parola, però effettivamente è inutile parlare di accoglienza se non ci sappiamo amare fra di noi, l’anteriorità ineliminabile è questa, una cultura dell’amore fraterno, del farci vuoto per dare spazio di accoglienza. E’ molto complesso tutto questo ma anche affascinante, anche affascinante.

Infatti quando vedi in qualche costruzione pietre e legni ben connessi tu entri sicuro, non hai paura d’un crollo. Volendo dunque Cristo Signore entrare e abitare in noi diceva quasi nell’atto di costruire: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Eravate infatti invecchiati, non mi costrui­vate ancora un casa, giace­vate nelle vostre macerie. Perciò, per liberarvi dal disfacimento delle vostre macerie, amatevi gli uni gli altri” – Considerate dunque che questa casa è ancora in costruzione su tutta la terra, come è stato predetto e promesso.

Qui addirittura Agostino arriva a dirci che l’accoglienza è anzitutto dei riguardi del Signore e questo Signore entra nelle nostre case, nelle nostre vite nella misura in cui sente che c’è un tetto affidabile, che le pareti sono salde, è bellissima questa responsabilità che Agostino assegna a ciascuno di noi, la possibilità che Dio entri in questa casa, come fa con Zaccheo il Signore Gesù e credo che ognuno di noi stasera si avvii a una celebrazione pasquale capace di ispirargli ecco architetture di amore dentro e fra di noi in vista di far diventare le nostre braccia, i nostri cuori, le nostre parole, meravigliosi organismi architettonici dove Dio sceglie di vivere ed entrare, e restare.

Torniamo a Mario Luzi e concludiamo prima di -come ogni anno- fare un gesto, che quest’anno vuole essere una processione semplice silenziosa fra le porte della nostra basilica, fra le sue colonne. Ve la faccio percorrere proprio come se dovessimo già prenderci cura del corpo senza vita del Signore Gesù, come celebreremo la sua morte venerdì pomeriggio e faremo memoria del fuoco di Notre Dame e di tante chiese, anche quelle ben meno note e troppe volte ben molto ignorate. Io penso alla risonanza straordinaria che ha avuto Notre Dame e ne siamo ben felici, ma l’anno scorso sotto Pasqua sono state bombardate e colpite a fuoco chiese copte in Egitto, piene di gente! Innumerevoli chiese sono state bombardate e distrutte in Iraq, per tanti cristiani celebrare Pasqua, in Pakistan, in tante altre parti del mondo significa rischiare la vita e lo dico non per vittimismo né per invocare azioni rivendicative o chissà quale occhio per occhio o dente per dente, lo dico perché sia chiara la consapevolezza della fragilità della vicenda del corpo di Cristo nella nostra storia, sarò distrutto dice il Signore Gesù – ma in tre giorni risorgerò.

Allora questa prospettiva deve animare i nostri passi con l’incenso in mezzo alle colonne salde, ma non eterne di San Miniato, e questa bellezza ci ispiri l’attesa pasquale che invochiamo, certamente per Parigi, per le pietre di Parigi, ma soprattutto per le pietre vive di tutti i nostri fratelli e sorelle del mondo che sono distrutte da fiamme ancora più feroci di quelle contemplate ieri.

 

Io chiesa madre di tutte le altre” …prosegue la lettura del testo di Mario Luzi fino a “Perdono, chiediamo a mani giunte”

 

Ecco, non c’è molto altro da aggiungere, credo abbiate tutti colto questa per me stupendissima immagine della cattedrale che di notte, illuminata da quei fari, quasi lamenta il tempo in cui c’era solo la luna e tuttavia vedete come la cattedrale interpreta quella novità in un senso pasquale, sono accecata da quei fari ma ben venga se serve ad accogliere. Ecco, che nuovi fari possano presto illuminare Notre Dame, di una luce che non sia quella distruttiva ma quell’incendio di cui pure parla Mario Luzi, l’incendio del fuoco della carità che lui ha evocato anche per San Miniato, “controfuoco alla vampa devastatrice del mondo” “siamo qui per ravvivarne col nostro alito le braci”.

Con la brace profumata dall’incendio percorriamo, direi davvero silenziosamente, la nostra basilica; con questo gesto di profonda compunzione Mario Luzi ci invita anche a una richiesta di perdono per come la chiesa nei suoi ministri abbia abusato. Con questi versi abbiamo trovato davvero la sintesi di tante cose del passato, del presente e anche del futuro che, come sostanza pasquale, invochiamo -torno davvero a dirlo- soprattutto laddove le chiese sono distrutte, non dall’incendio della nostra distrazione o di una tecnologia che perfetta ancora per fortuna non è, ma distrutte dal fuoco violento nemico e armato per il quale imploriamo pace pace pace.

Trascrizione di Grazia Collini

 

 

 

 

 

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