Omelie

«In radicale ascolto della sofferenza». Omelia del padre abate Bernardo per la V Domenica di Quaresima

21 marzo 2021 – V Domenica di Quaresima (B)

 

Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

 

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, con espressioni molto forti la parola di Dio oggi ci introduce potentemente già nel cuore del mistero pasquale.

La riforma liturgica, nel suo intento di rendere più semplice la scansione dei giorni e delle settimane nel ritmo della celebrazione del mistero, ha omesso la qualità della settimana che precede la settimana santa che nella tradizione veniva chiamata settimana della passione, tempo della passione. A maggiore vantaggio di una chiarificazione strutturale si è però persa una qualità speciale di questi giorni che funzionano come una sorta di pronao, di colonnato che ci permette di accedere a quella concentrazione di simboli, di avvenimenti, di silenzi e di parole, gesti, di sottrazioni, di donazioni, di consegne, che sarà il grande cuore del tempo che è la Pasqua. Ma vorrei che oggi ci sentissimo già molto vicini all’evento della morte e della resurrezione del Signore Gesù, anche per comprendere meglio la forza di questa espressione, ricorre come lo avete ascoltato la parola morte e tutto quello che sta intorno alla morte, solitudine, paura, angoscia, ma anche l’interpretazione con la quale il Signore Gesù si appresta a vivere la sua morte nel segno di una inesorabilità che andrà bene intesa, a meno di non voler rischiare di fraintendere l’evento pasquale come la consegna della vita del Cristo a  un Padre assetato di sangue e desideroso di vendicarsi sulla condizione umana vedendo morire suo Figlio.

Anzi il Vangelo di Giovanni ci insegna a leggere semmai la morte del Signore Gesù, l’evento della sua crocifissione, lo abbiamo ascoltato, come una misteriosa e paradossale glorificazione. Anche noi come la gente intorno al Signore Gesù siamo destinatari di questa parola che dall’alto viene fraintesa come un tuono o come parole pronunciate da qualche angelo. Questa manifestazione della voce del Padre corrisponde nel Vangelo di Giovanni a quello che noi abbiamo già vissuto la domenica della trasfigurazione, è la certificazione che viene dall’alto a dare garanzia ai discepoli e alla Chiesa del Signore, che tutto quello che sta per accadere è nel segno certamente della volontà del Padre, ma questa volontà del Padre si attua come gloria, paradossale, come intronizzazione, paradossale, come elevazione, paradossale, del Figlio unigenito Gesù Cristo.

E qui fratelli e sorelle, dobbiamo stare, per così dire, nel registro simbolico, paradossale, che Giovanni appronta per ciascuno di noi, per educarci a vivere una modalità nuova di essere re e signori del tempo e degli spazi, di vivere la morte, di vivere questa speciale comunione col Padre celeste che Gesù intende conoscere fino in fondo, lasciando che tale volontà entri nel suo corpo, nei suoi pensieri, sfibrandoli ed introducendo così la sua radicale autoconsegna, la sua radicale autodonazione nello spazio del Padre.

E questo, fratelli e sorelle, deve farci intendere un dato essenziale sotteso al mistero pasquale, l’elevazione del Signore Gesù, la glorificazione del Signore Gesù accade perché è il Padre a glorificarlo, è il Padre a sollevarlo e questo fratelli e sorelle ci lascia intendere come nel Signore Gesù possiamo finalmente vedere la nostra drammatica orizzontalità tornare ad avere una sua verticalità, per l’amore che investe totalmente il Figlio da parte del Padre, un amore che si attua come consegna che il Figlio riceve da parte del Padre a vantaggio della nostra esistenza. Ed è qui che noi intuiamo l’assimilazione con la quale il Signore Gesù si lascia immaginare come quel chicco, quel seme di grano che precipita a terra, va incontro alla morte, per non essere solo, ma sorgente di altra vita e tutto questo fratelli e sorelle, non per soddisfare il Padre, ma perché si compia l’amore del Padre che dona il Figlio, consegna il Figlio, affida il Figlio alla terra, affida il Figlio alla nostra condizione umana, pur sapendo che il suo destino sarà inevitabilmente il non essere riconosciuto come tale, il non essere accolto, l’essere respinto, l’essere oscurato e finalmente morire, un destino che era inscritto nel prologo del Vangelo di Giovanni che non a caso avevamo proclamato a Natale del Signore.

Quindi fratelli e sorelle, c’è una tensione che discende dall’alto verso la nostra vita e questa tensione la dovremmo saper accogliere, saper ricevere, saper riconoscere, come emorragia di amore del Padre nei riguardi del Figlio, un Figlio che, ci ha insegnato la Lettera agli Ebrei, è a scuola di questo mistero, come lo siamo noi nella liturgia, che ci farà vivere intensamente, per l’appunto la passione del Signore Gesù, ci farà vivere la sua sofferenza, il suo tormento, i suoi dubbi, le sue angosce, per imparare la sua obbedienza, come Lui ha imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito.

Cosa significa imparare l’obbedienza da parte del Signore Gesù?

Le espressioni sono molto forti, meriterebbero ben altro commentatore, ma qui andrà inteso molto bene come ancora una volta obbedire sia la forma intensiva dell’ascoltare, un ascolto fratelli e sorelle, che esporrà il Signore Gesù in quella intronizzazione paradossale, a null’altro che al silenzio del Padre, perché il Padre non pronuncerà più alcuna parola dopo questo invito rivolto a noi a riconoscere il Signore Gesù glorificato dal suo amore e lo glorificherà ancora, per l’appunto sulla croce.

E noi dovremo essere con il Signore Gesù capaci di ascoltare questo silenzio, ecco l’aspetto che richiede un supplemento di scuola, di pedagogia, di allenamento, di concentrazione, per questo questa settimana, fratelli e sorelle, anche se corre il rischio di scivolare come tutti gli altri giorni, abbia invece in voi, che siete scolari attenti del mistero di Dio nel tempo, abbia già uno spessore fortemente pasquale, abbia già uno spessore in forza del quale i vostri cuori siano disponibili ad essere lo scrittoio nel quale, sulla carne viva, lo Spirito del Signore incida i contenuti della nuova alleanza, come ci ha detto Geremia, espressioni che voi sentite hanno ancora questo tratto cruento, sanguigno, carnoso, perché è in gioco la vita della vita, potremmo dire così, è in gioco la vita della vita, anzitutto la vita stessa di Dio che si comunica alla nostra condizione umana attraverso la gloria del sangue del Signore Gesù.

Il linguaggio è molto forte, fratelli e sorelle, ma andrà inteso, noi che siamo ormai abituati a leggere e a vedere, soprattutto al cinema, effusioni di sangue come ormai una truculenta spettacolarizzazione della morte in una sorta di estenuato romanticismo della passione. Non è questo l’orizzonte entro cui interpretare e decifrare queste parole, esse non vogliono semplicemente smuovere la nostra passione e i nostri sentimenti, anzi, Giovanni in questo è un evangelista raffinatissimo, chiede l’addestramento del pensiero, chiede l’addestramento della nostra logica di trans-significazione sottesa al linguaggio simbolico che dice una cosa per evocarne un’altra, noi abbiamo perso questa prospettiva, noi abbiamo bisogno oggi dell’immediatezza, naturalmente mediata dalla spettacolarizzazione delle arti, dei sistemi mediatici, ma noi non abbiamo più questa mentalità alta che porta ad un intus legere le cose intorno.

E proprio per questa povertà abbiamo bisogno dei sentimenti forti, o presunti tali, e allora ecco in questa dimensione invece fratelli e sorelle, appunto il sangue è espressione rivelativa  dei segreti di Dio, della vita di Dio, una vita che è comunione, che è relazione, Padre, Figlio e Spirito Santo, una relazione che si slabbra nel mistero della croce del Signore Gesù e slabbrandoci non può non sanguinare, ma questo sangue diventa irrigazione per le nostre vite che altrimenti condannate alla solitudine della nostra morte, per accedere alla vita della vita, entrano in questo spazio di comunione che il Signore offre laddove noi lo possiamo raggiungere, piantandosi bene nella nostra terra, conficcandosi bene nel nostro peccato, conficcandosi bene nella nostra carne sfibrata.

Questo è il trono dove si innalza il Signore Gesù, investendoci di una glorificazione cui Lui stesso accede, attrezzandosi filialmente  attraverso l’obbedienza, cioè l’ascolto del silenzio del Padre, in forza di questa slabbratura che diventa il passaggio che è salvezza per la nostra altrimenti sconfitta umanità, perché non possiamo dimenticare quello che accade nel mistero pasquale, fratelli e sorelle: entra la morte in Dio attraverso quello che accade al Signore Gesù, nella sua carne umana, ma in una economia inscindibile di divinità e di umanità e in questa slabbratura noi intuiamo e troviamo il passaggio, la Pasqua, per le nostre vite, sollecitate ad accorgersi di cosa sia potentemente in gioco, in modo radicalmente inedito. Noi conoscevamo già un Dio che entra in relazione con un popolo, lo dicevamo domenica scorsa, un Dio che si spoglia di ogni immagine, si spoglia di ogni stilistica estenuata del sacro pur di interagire cuore a cuore con l’intelligenza della nostra fede, l’intelligenza del popolo di Israele, correndo il rischio di non lasciarsi riconoscere dall’ottusità di un popolo che, pure liberato dall’oppressione egiziana, continua a dubitare, se Dio è ancora con lui o non più.

Ecco l’inedito è questa alleanza scritta nel nostro cuore, si diceva prima, trasformare la nostra interiorità dove agisce, come se fosse uno scrittoio vivo, l’inchiostro del sangue del Signore Gesù.

Sono espressioni irriducibili, lo capite molto bene, a qualsiasi sentimentalismo spiritualistico, qui è in gioco la possibilità di rileggere in modo inedito la nostra condizione umana, come spazio entro cui abita Dio, fratelli e sorelle.

Questi sono versetti che costituiscono per così dire la possibilità stessa della mistica cristiana, cioè del fatto in forza del quale Dio sceglie il nostro cuore come sorgente della sua parola, come esperienza della sua comunione con noi e questo è, fratelli e sorelle, restituire a tutti noi la consapevolezza dell’altissima vocazione della condizione umana e anche, in questa luce cristica, la vocazione, lo dico con forza, della stessa sofferenza dell’uomo.

Perché ci dovremo interrogare cosa significhi per l’uomo soffrire.

Non è per noi, fratelli e sorelle, un esercizio di virtù, tanto meno, lo abbiamo già detto a chiarissime lettere, un soddisfare l’istinto di un Padre assetato del nostro soffrire, che si compiace di metterci alla prova in una forma che in un certo senso ci trasformerebbe in dei tetani se riusciamo nell’impresa. Non è questo, fratelli e sorelle.

La sofferenza in noi diventa veramente lo spazio attraverso il quale anche noi viviamo le nostre slabbrature, i nostri cedimenti, che è il grande e vero significato della tentazione, cioè la prova con la quale l’uomo riscopre un limite che è strutturale alla sua condizione creaturale, ma questo limite è attraversabile se noi ascoltiamo e obbediamo, come ha fatto Gesù, a una luce comunionale di amore che ci bagna le pareti del cuore del sangue di Dio, che fa del nostro cuore lo spazio dove risuona la parola di Dio nella sua qualità di alleanza costitutiva di una novità inedita per la nostra singolare vita, per la storia di tutte le storie.

Ecco insisto molto su questi passaggi fratelli e sorelle, anche perché, per esempio…per esempio, e anche qui non attribuitemi vi prego giudizi sbrigativi, perché è un dramma nel dramma, il fatto che ci si ritenga progrediti nella misura in cui si recepisce a livello legislativo come diritto il fatto per cui si possa disporre della nostra vita come si può disporre di un impianto elettrico, accendendolo o spengendolo a seconda del bisogno, della necessità e soprattutto dell’efficacia-profitto.

Capite benissimo a cosa alludo.

Perché non ci domandiamo fino in fondo cosa significhi, quale sia la vocazione della sofferenza nel cuore dell’uomo alla luce di questo, che ci viene consegnato senza censure dal Vangelo, cioè la sofferenza in Dio e sentite voi come Giovanni da un lato, che pure è così attento alla regalità del Signore Gesù nella prospettiva appena detta e così la Lettera agli Ebrei, sentite come per Gesù la sofferenza non è una sceneggiata, è davvero esporsi al limite che genera pianto, paura, angoscia, ma Gesù, diversamente da noi, ascolta quello che accade nella sofferenza, si lascia interrogare, si lascia trasformare, non la cerca, non la esalta, tanto meno la suggerisce, sia ben chiaro, però la ascolta.

Noi non siamo disponibili più ad ascoltare la sofferenza, noi fratelli e sorelle abbiamo creato una cultura di autoprotezione, una cultura autoimmune che potenzia certamente la qualità della nostra vita nel segno del grande idolo del nostro tempo che è il cosiddetto benessere, però questa concentrazione che qualifica alla fine sempre più ristretti spazi della nostra vita, perché a un certo punto si deve invecchiare, piaccia o non piaccia, allora fratelli e sorelle in questa prospettiva noi però siamo più anestetizzati, sempre meno disponibili ad ascoltare ed ad obbedire, in senso forte di questa parola, non esecutivo sia ben chiare, ob audire, ascoltare, quello che ci insegna il limite e il limite quando diventa lo spazio attraverso il quale Dio sconfina in noi, questo è l’aspetto paradossale, sconcertante -per i giudei scandaloso- del Signore Gesù ed è il grande mistero pasquale, fratelli e sorelle, Dio sconfina nella nostra sofferenza e fa di questo sconfinamento il passaggio che ci libera dalla sofferenza in una prospettiva che non è la sciocchezza del benessere, la sua illusorietà e il suo miraggio, ma è, non può che essere, la vera grammatica che sostanzia di dignità la nostra condizione umana e cioè l’amore, quello con la A maiuscola, quello per cui mi accorgo che da solo non basto e che la vocazione dell’amore vero è aprirmi agli altri, condividere con gli altri, lasciarmi amare per imparare ad amare, in una parola il grano che marcisce ma diventa esperienza di comunione, di fecondità, di aggregazione, diversamente da quello stupido chicco di grano che fallisce la sua vocazione, crede di sopravvivere e resta solo …e resta solo.

Ecco, abbiamo gli elementi sufficienti, credo, seppure esposti in forma come al solito caotica ma -settimana di passione non significa che è finita la Quaresima, quindi un po’ di penitenza ve la faccio fare, costringendovi a seguire un filo che io nemmeno tengo fra le mani- però qualche idea ce la siamo scambiata, con questo orizzonte fratelli e sorelle, che evocavo all’inizio di questa celebrazione, cioè vedere sul nostro orizzonte altrimenti modulato da dune che non conducono a un bel niente, questo è il paesaggio esistenziale del nostro tempo, spesso e volentieri, non dico sempre, ma spesso e volentieri, le onde del contagio ci dimostrano di essere, fratelli e sorelle, esposti a forze che ci superano e che fanno diventare il nostro tempo, la nostra terra, come onde che si sa salgono, si abbassano, noi siamo su dei fuscelli di imbarcazioni costretti a reggerci, ad aspettare che l’onda alta si abbassi, ripararci fra due pareti di acqua, la stessa cosa nel deserto.

Non è così, non può essere così, fratelli e sorelle, non siamo senzienti, intelligenti e aggiungo trans-significanti per subire la paura, per subire le onde del contagio, c’è altro dentro di noi, c’è un’alleanza nuova, scritta dalla mano stessa di Dio col sangue del suo Figlio per educarci a riconoscere sull’orizzonte dei nostri giorni una croce, strumento di morte e alla luce di tutto quello che si è detto, paradossale albero di vita. Amen!

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

 

 

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