«In morte di Idy e di Davide». Omelia del padre abate Bernardo per la IV Domenica di Quaresima “Laetare”

«In morte di Idy e di Davide». Omelia del padre abate Bernardo per la IV Domenica di Quaresima “Laetare”

Omelie e meditazioni

Fotografia di Mariangela Montanari

Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni 
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle risuoni su questa città, in questo cielo grigio, una parola di forte speranza.

Firenze ha conosciuto, in una risonanza nazionale, una sua settimana di passione, attraverso due morti fortemente evocative e simboliche che non possiamo trascurare, non perché non si muoia nelle altre settimane, ma perché effettivamente il periscopio che la liturgia ci offre in questo giorno privilegiato di ascolto, di sguardo, di intelligenza e di decifrazione del tempo che ci è dato, quasi impone una lettura che privilegi alcuni eventi che possano diventare una speciale chiave interpretativa della nostra realtà, alla quale vogliamo tornare con forza a invocare il suo carattere di mistero.

Dunque la morte del capitano Davide nel suo sonno e la morte di Idy su un ponte che attraversa l’Arno, segnalano una volta di più la fragilità della nostra condizione umana e la grande tentazione di pensarci, per così dire, sottratti sia per l’invincibile intrinseca naturalità e leggerezza della naturalità della nostra vita, sia per l’incontenibile -talvolta- istinto di sopraffazione in vista di una sopravvivenza radicale anche a spese degli altri, riconoscendo queste due meccaniche come predominanti nella nostra vita, la grande tentazione di ritenerci del tutto sganciati da una prospettiva che dia dignità a questa nostra esistenza.

Sono riflessioni abbastanza direi classiche per coloro che salgono a San Miniato e non voglio certo annoiarvi riproponendovi ritornelli estenuanti, ma credo che anche qui vada rispettata la vostra scelta di salire su questa collina per incontrare il volto del Signore, di voler rileggere assieme alla comunità monastica che vi accoglie, la vicenda vostra, personale, familiare, comunitaria, assumendo lo sguardo alto che questa collina ci propone sulla nostra città, uno sguardo inevitabilmente di sintesi, dove ancora più forte è l’esigenza che fa un tutt’uno col nostro cuore, con la percezione di essere in una storia, di trovare alcuni punti forti: sono punti forti che nello stesso tempo ci inquietano, ma che possono dare anche ali forti al nostro pensiero per sottrarlo dalla banalità della ripetizione, dalla assuefazione che può anche, fratelli e sorelle, attenuare, intorpidire, depotenziare il Vangelo di Gesù Cristo.

Oggi è un Vangelo che ci parla di verticalità, con questa immagine radicalmente, passatemi l’espressione, omeopatica della salvezza, il serpente innalzato guardando il quale si guarisce dai suoi morsi, ci fa intuire con forza quale sia l’impasto e la fragranza dell’amore salvifico del Signore Gesù, esso non è un sortilegio che, per così dire, si tiene lontano dalla malattia che vuole curare, né soffre, per così dire, il veleno stesso, ma viene a svelare come di fatto, ed è il senso della nostra passione stamattina, questo nostro esistere ritrova la sua più autentica configurazione se ha il coraggio, come voi avete avuto stamani, sfidando la pioggia, di recuperare una direttrice verticale, uno sguardo dall’alto sulle cose, fratelli e sorelle, lasciarci sollevare.

“suscepit anima nostra” abbiamo cantato all’inizio di questa celebrazione dove davvero c’è il senso di un suo sollevarci dal basso, perché egli conosce il peso fragile della nostra condizione umana e anche la grande tentazione di utilizzare come unica categoria interpretativa della nostra vita questo peso dell’esistenza, fratelli e sorelle.

Allora oggi ci viene offerta, in questa linea austera tipicamente quaresimale, la leva che ci deve servire, e ci può servire, per ribaltare questa percezione che farebbe anche del Cristianesimo un esistenzialismo senza speranza. E questa leva ci è offerta dall’incrocio quasi quotidiano, anzi più che quotidiano del nostro cuore con il peccato, con la colpa, di cui abbondantemente parla oggi la scrittura e, fratelli e sorelle, non per suscitare in noi rinnovati sensi di colpa, non è questo il fine dell’Evangelo che anzi, ne è un grande messaggio di liberazione, ma perché proprio nella colpa, nel peccato, nella debolezza, cioè nel mancare del nostro essere, saremmo indotti a pensare ad una esistenza, la nostra, sganciata da ogni approdo forte, sottratta ad ogni interpretazione qualificante, estranea ad una prospettiva duratura e significativa per i nostri giorni.

E in questo senso effettivamente la morte, non si capisce per quale ragione di Idy, ma che certamente ha delle connotazioni socioculturali che non possiamo ignorare e che sono portate a farci credere che l’altro spesso, anche per il banale colore della pelle, può diventare un nemico da cancellare dal mio sguardo e nello stesso tempo l’impossibilità a credere che un eroe del nostro tempo, credibile per la limpidezza dello sguardo, la sapienza della parola e l’umiltà della sua testimonianza sportiva, possa assopirsi nella morte, senza darci alcuna spiegazione.

Allora, fratelli e sorelle, noi passiamo attraverso questa strettoia che, unitamente al mistero del peccato, sono leve con le quali provare insieme a risollevare il peso della nostra esistenza, siamo qui per questo, fratelli e sorelle, certo, se dovessimo confidare sulle nostre forze certamente il grande peso di cui parliamo forse potrebbe alzarsi di qualche millimetro, e non passerebbe quella luce necessaria, ma oggi Paolo ci offre un criterio interpretativo molto bello, egli dice:

“Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”

“Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere”

Allora fratelli e sorelle, questo segnala un perimetro amplissimo nel quale sta tutta la nostra esistenza, del santo come del non santo, del giusto come del non giusto, di colui che per una singolare qualità carismatica, come il nostro capitano, è capace con poche parole di riunire una scombinata società sportiva come la Fiorentina, nessuno me ne voglia, e d’altro canto come uno sconosciuto venditore ambulante possa pure risollevarci al grande interrogativo: siamo o non siamo una città accogliente? Siamo o non siamo razzisti? Usiamo questa parola! Siamo o non siamo capaci di accogliere il diverso?

Ecco, in questo perimetro segnalato da questi interrogativi, fratelli e sorelle, viene questa parola fortissima di Paolo: “Siamo opera sua”.

Siamo opera sua.

Questa è la lente con la quale tornare a leggere la nostra storia, la storia di questa città in questi ultimi sette giorni, la storia con la quale puntare l’intelligenza della nostra volontà e della nostra responsabilità verso il futuro e questo, fratelli e sorelle, è opera di tutti e per tutti, a prescindere da appartenenze e convenzioni politiche, sociali e religiose, perché il futuro è dell’umanità intera! Ed è il grande dono e mistero che oggi vogliamo riscoprire come lo spazio in cui addestrarci, noi che abbiamo ricevuto il misterioso e fragilissimo dono della Fede, perché non si smentisca nella pur minima percezione che siamo opera sua!

Dove questo essere opera del Signore, fratelli e sorelle, in un tracciato di inerenza e compartecipazione fortissima sta la verticalità di una parola chiave messa in luce dal Vangelo di stamani e cioè la dinamica della figliolanza che, come bene sanno i genitori qui presenti, non può non essere verticalità perché si genera un figlio perché prosegua la storia del mio sangue, dei miei pensieri, dei miei ideali, con la sua legittima e diversa fantasia e capacità nell’asse verticale del tempo, fratelli e sorelle.

Intuite la potenza con cui, nel cuore stesso della Trinità, mediante la figliolanza noi intendiamo che senso ha l’amore di Dio, un senso di verticalità, di apertura al futuro, di fiducia nella condizione umana alla quale il Signore non manca di consegnare tempo perché si traccino nuove direzioni ai giorni che verranno.

E certamente lo scandalo della morte di Davide e di Idy attenuano certamente questa prospettiva, ma noi siamo tornati sette giorni dopo in questo luogo per attendere il passaggio del Signore, sette giorni dopo, per ricevere da lui l’intuizione, la grazia, il perdono e, come mirabilmente oggi dice il Vangelo, la luce necessaria perché ognuno di noi non conosca la verità, nemmeno la testimoni ma faccia la verità! Questa è la espressione potentissima con cui San Giovanni liquida una volta per sempre qualsiasi tentativo di ridurre il Vangelo a filosofia, non si tratta di conoscere, fratelli e sorelle, il mistero, si tratta di esserne per così dire, annegati, dalla sua forza tracimante che, aprendoci al futuro nella verticalità della figliolanza, ci renda in grado di fare la verità.

Questo interessa al Signore Gesù, quelle opere buone, ha detto Paolo, generate dall’amore del Signore Gesù mediante le quali -egli ci ha detto- possiamo camminare, mediante le quali possiamo camminare, a dirci una volta di più fratelli e sorelle, che il Vangelo non è morale, noi non abbiamo bisogno del Vangelo per fare delle opere buone, tante persone lontane dal Vangelo le fanno, noi abbiamo bisogno delle opere buone perché è proprio in questa dinamica di cammino che lasciamo che la verità trapeli in noi e che finalmente ad essa cediamo, in una ritrovata intuizione di una equazione fondamentale che certamente capitan Davide e Idy morendo hanno eclissato per qualche istante, e forse per più di qualche istante, nel cielo di questa nostra città, ma siamo saliti in collina per riscoprire che non avrebbe alcun senso questa nostra vita se non tornassimo ad essere capaci, per grazia, mistero, ma anche giusta e umile buona volontà, che luce, amore, verità sono la danza trinitaria nel cui movimento di bellezza è invitata ogni giorno a farsi e compiersi la nostra vita. Amen

Trascrizione a cura di Grazia Collini

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