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«Il tempo della fede nella società di oggi». Riflessione di Sua Eminenza il Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin al termine del millenario di San Miniato al Monte e nell’ambito del Festival delle Religioni

Meditazioni

Festival delle Religioni 2019:

“Il tempo della fede nella società di oggi”

Basilica di San Miniato al Monte, 27 aprile

  1. Il tempo della fede nella società di oggi (A).

 

         Cari fratelli e amici, il mio vuole essere un intervento molto semplice, più testimoniale che accademico, sulla fede e sulla preghiera, soprattutto sulla loro importanza nella nostra vita e nel tempo presente. Credo che mentre la presenza di Dio si oscura sempre più nel nostro mondo (occidentale, ma il processo di secolarizzazione è in atto in tutte le latitudini), noi siamo chiamati ad essere, con maggiore radicalità, testimoni della fede.

Più passano gli anni, più sento che diventa sempre più vero ciò che diceva Carlo Carretto: «Aver fede in Dio, fidarsi di lui! È questa la fondamentale battaglia della vita!». In un certo senso, questa è la battaglia fondamentale soprattutto dei nostri tempi, perché i nostri tempi – forse più di altri – sembrano avere la caratteristica di rimettere in questione ciò che pareva ovvio e scontato.

Parliamo di battaglia fondamentale non nel senso di sentirci chiamati a un’impresa fondamentalista, ovviamente no visto che il fondamentalismo è segno di disperazione della ragione e di sconfitta della fede e, dunque, di tutto abbiamo bisogno meno che di una fede “bellicosa”.

A questo riguardo, vorrei citare la poetessa Mariangela Gualtieri e ciò che il suo componimento intitolato “Paesaggio con fratello rotto” evoca:

“Ma tu non credere a chi dipinge l’umano come una bestia zoppa

e questo mondo come una palla alla fine.

Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e di sangue.

Lo fa perché è facile farlo.

Noi siamo solo confusi, credi.

Ma sentiamo. Sentiamo ancora.

Siamo ancora capaci di amare qualcosa.

Ancora proviamo pietà.

C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto.

Io ora lo vedo di più.

C’è splendore. Non avere paura.

Dunque, parlerei di battaglia fondamentale solo nel senso di sentirci chiamati all’impresa di una riscoperta, di una riappropriazione, di una nuova comprensione ed espressione di quelli che sono i perenni fondamenti umani e cristiani – solidi e insieme fragili – della vita: l’amore, la pace, la giustizia, la solidarietà, la fratellanza, la bellezza, il pensiero, il lavoro, la vita comune, il futuro, la ricerca della verità, la cura del creato, la cultura, il perdono, la religiosità, nonché la fede e la preghiera, appunto.

Qualcuno ha detto che il cristiano del futuro sarà un credente e un orante o un mistico, o non sarà. Io direi che anche l’uomo del futuro, o sarà capace di comprendersi in un orizzonte di trascendenza o sarà inghiottito da ciò che egli stesso, con ingegno e smisurata volontà di potenza e di dominio, ha “creato”. Bene, allora, se arriva una “crisi” a scuoterci e a sottrarci a questa implosione, nel senso di disvelare il malessere che può nascondersi nel benessere, la debolezza nel mito della potenza, l’ipocrisia nel perbenismo, il conformismo nelle apparenze della religione e della fede. Bene se il sentimento di stare per perdere qualcosa ci spinge a pensare, a riflettere, a pregare di più e meglio.

E che oggi ci sia una crisi anche religiosa, almeno per quanto riguarda i numeri, è sotto gli occhi di tutti. Già oltre 50 anni fa, il Concilio Vaticano II considerava questa temperie con lucidità: «Da un lato, un più acuto senso critico purifica la vita religiosa da ogni concezione magica del mondo e da sopravvivenze superstiziose ed esige sempre una adesione di fede personale e responsabile: numerosi sono perciò coloro che giungono ad un più profondo senso di Dio. D’altro canto, però, moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio o la religione, o farne praticamente a meno, non è più un fatto insolito e individuale. Oggi infatti non raramente viene presentato come un’esigenza del progresso scientifico o di un nuovo tipo di umanesimo» (Gaudium et Spes, 7).

  1. Il tempo della fede nella società di oggi (B).

In particolare, la crisi non risparmia – lo sappiamo bene – la Chiesa e la sua credibilità, per una molteplicità di ragioni che non possiamo qui considerare, ma le cui cifre sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Per esempio, in Italia, secondo un sondaggio recentemente pubblicato su “la Repubblica” (lunedì 1 aprile 2019), circa il 22% degli intervistati considera “molto importante” la guida della Chiesa per quanto riguarda le scelte personali, circa il 41% la considera “utile” ma ritiene che poi ciascuno si debba regolare secondo coscienza; il resto si divide tra chi è “indifferente” (8%), chi considera che la Chiesa dovrebbe occuparsi solo di fede (20%), e chi considera la sua guida “negativa” (6%); altri non rispondono (3%). Tutto questo a prescindere dal fatto che Papa Francesco piaccia al 70% degli intervistati. E, infine, è di poco conforto osservare che il grado di fiducia di cui gode la Chiesa (c. 38 %), pur se calato di molto (20 punti) negli ultimi dieci anni, sia pur sempre più elevato di quello goduto dalle istituzioni pubbliche e dallo Stato.

Insomma, direi che ci sono tanti motivi per preoccuparsi, o almeno per porsi dei salutari interrogativi. Ma non ne vedo neanche uno che giustifichi il rifugiarsi nell’inazione o in posizioni lamentose, difensivistiche e laudatorie del tempo che fu. Io personalmente preferisco guardare avanti ed essere prudentemente ottimista. Nel senso che in ciò che accade vorrei sforzarmi di vedere non solo il rapido venir meno di qualcosa che ha improntato la vita di molte generazioni che ci hanno preceduto, ma piuttosto il forte appello a costruire qualcosa di migliore e più convincente. In particolare, come pastore, desidero sforzarmi di intravedere anche le possibilità nuove che possono crearsi per la maturazione delle persone: spiraglio per una ricerca personale più consapevole, per un nuovo senso di responsabilità verso il bene comune. E, dunque, anche possibilità nuove per mettere in campo cammini di preghiera e di fede che siano davvero maturanti, almeno per le persone che lo vogliano seriamente. Naturalmente, la Chiesa non potrà accontentarsi di quanto sin qui si è fatto, ma dovrà cercare di offrire un buon servizio a queste coscienze, spazi di incontro, di ascolto, di testimonianza, di studio e di confronto, in una parola uno stile nuovo di comunità cristiana. Abbiamo la pienezza di Cristo da proporre al mondo: dovremmo aiutare tutti, i giovani in particolare, a ritrovare questo “paradigma” assoluto dell’umanità che è il Signore Gesù, sentendoLo parte della nostra vita e sentendoci parte della Sua.

Penso che il futuro, che avanza impetuoso con tante luci e altrettante ombre, lungi dal costringere la Chiesa ad una funzione di testimonianza residuale, la sfiderà – e in un certo senso la obbligherà – a riprendere il cammino, da una parte puntando a quote più alte (anzi alla quota più alta possibile, che è l’incontro con Dio in Gesù Cristo nostra pace), dall’altra a percorrerlo con un bagaglio ridotto al minimo essenziale.

Ecco, allora, se mi domando che cosa sia questo bagaglio essenziale, mi viene in mente un famosissimo detto ebraico (che si trova nella raccolta “Detti dei Padri”)  attribuito a Simeone il Giusto, che è stato sommo sacerdote a Gerusalemme nel terzo/secondo secolo prima dell’era cristiana. Esso suona così: «Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torà, la preghiera e le opere di misericordia».

Mi piace pensare alla preghiera non come mera appendice di una vita che trova altrove il suo centro, ma come colonna del mondo. Fede e preghiera si richiamano e si implicano a vicenda, il credente e l’orante si sorreggono l’un l’altro. E in un certo senso è vero che è necessario (forse non sufficiente) che un cristiano sappia veramente ben pregare, per potersi dire in qualche modo “adulto” (al di là della sua età anagrafica), cioè aperto alla grazia di Dio: in grado di oltrepassare le illusioni mondane e di discernere la volontà di Dio, premessa necessaria al poter essere di vero aiuto ai fratelli con il consiglio e al poter essere fecondo nel mondo con la testimonianza evangelica. Naturalmente, ciò non significa che il cristiano non debba anche saper sedere in ascolto pensoso degli altri, sia credenti che non credenti. Ma io mi fermerò qui a riflettere solo sul bagaglio che egli porta in dono.

Nel contesto epocale sopra accennato, che è il nostro e che ci è ben noto, vorrei fare con voi –  cari amici e fratelli – due semplici considerazioni, oltre a quella introduttiva sin qui svolta. La prima la chiamerò “la preghiera e la tentazione della sfiducia nel cuore del Vangelo”, e mi riferisco in particolare al Vangelo di Luca che ci accompagna in questo anno liturgico; la seconda la chiamerò “l’educazione alla fede nella vita della Chiesa”. Per esporre queste brevi considerazioni, vorrei avvalermi anche di parole non mie, ma che, avendone tratto giovamento personale, ho potuto far mie nello studio, nella meditazione e nella preghiera.

 

 

  1. La preghiera e la tentazione della sfiducia nel cuore del Vangelo.

Nel cuore del Vangelo c’è un “fare” che coincide molto più con l’ “essere” che con il “produrre”; esso si identifica col “farsi” di qualcosa di decisivo dentro di se stessi, e dunque dentro l’anima dell’umanità e del mondo: è la dinamica della relazione profonda dell’uomo con Dio, quella del cuore a cuore, dell’intelligenza a intelligenza, del sentimento a sentimento, della libertà a libertà, del mistero a mistero: è la dinamica della preghiera.

Notiamo, infatti, che nel Vangelo di Luca, il primo e l’ultimo insegnamento di Gesù, potremmo dire l’insegnamento fondamentale, è proprio quello sulla preghiera. Anzi, tutto l’insegnamento di Gesù è un’introduzione alla preghiera, intesa come relazione profonda con Dio, come l’abbandonarsi la Padre nella fede, come ingresso nella comunione trinitaria, come fondamento del servizio ai fratelli. Ben presto, dopo l’inizi0 della missione pubblica, i discepoli già chiedono a Gesù «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11, 1…); e, poi, alla fine del cammino missionario, sul monte degli Ulivi, Gesù stesso chiede ai discepoli di pregare: «pregate per non entrare in tentazione (o nella prova)» (Lc 23, 40), e «per non essere inghiottiti nella tentazione (o nella prova)» (Lc 23, 46). Già prima Gesù aveva detto a Simone: «Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede» (Lc 22, 32).

Ma c’è un’altra dinamica cruciale al cuore del Vangelo, che va di pari passo con la prima: la dinamica della tentazione. Non si tratta certo di una tentazione banale, di una tentazione qualunque, ma della tentazione per eccellenza: quella di non fidarsi di Dio. Non è, badiamo bene, la tentazione di non credere all’esistenza di Dio. É quella di non far credito alla Sua opera e al Suo modo di realizzarla nel mondo, e di perseguire altre vie più “efficaci” e “redditizie” per raddrizzare e redimere ciò che ci pare distorto e sbagliato nel mondo.

È questa la tentazione nella quale cadono Simone-Pietro e i suoi compagni, una volta svanita la speranza di un trionfo messianico-regale del loro Maestro: la tentazione di addormentarsi, la tentazione di chiudere gli occhi per non vedere quanto è brutta la realtà, la tentazione di non vegliare con Gesù nel momento del suo dramma umano, la tentazione di voltarsi dall’altra parte, la tentazione di dire a Dio “se avessimo fatto a modo nostro…”, la tentazione di non accettare l’inaccettabile, cioè il fallimento umano di Gesù, tale – se non altro –  secondo le apparenze e secondo il giudizio degli uomini. In fondo, non c’è molta differenza in questo senso tra gli Undici e Giuda. Diciamo di più: capita spesso anche a noi cristiani di precipitare in questa prova. Può capitare anche a uomini di Chiesa di trovarsi sull’orlo di questo precipizio, cadendo nel quale ci si trova a vivere con la convinzione che l’opera di Dio nel mondo sia fallita, inutile, ininfluente, insignificante. Ci si trova a dar ragione al mondo e a prenderne a prestito strategie e metodi…

In questo caso, come facciamo a sapere se siamo vivi o se siamo già morti? Ecco, cari amici, penso questo: se preghiamo vuol dire che siamo vigili e vivi, per quanto fragili, tentati e sofferenti. «Quando uno è svenuto e non dà più segno di vita» – scrive San Francesco di Sales – «gli si mette una mano sul cuore; al più piccolo moto che si sente, si arguisce che colui vive, e per mezzo di qualche ristoro gli si può fare riprendere conoscenza e forza. Così avviene talvolta che, per la violenza delle tentazioni, l’anima sembri caduta in uno sfinimento totale di forze. Ma se vogliamo conoscere il suo vero stato, mettiamole una mano sul cuore: vedremo se il cuore e la volontà hanno ancora il loro moto spirituale, se cioè si continua a negare il consenso alla tentazione. Finché questo moto repulsivo perdura nel nostro cuore, siamo certi che la carità, vita dell’anima, è in noi e che Gesù Cristo, nostro Salvatore, se ne sta dentro all’anima, sebbene appartato e nascosto. Così con la pratica perseverante dell’orazione, dei Sacramenti e della confidenza in Dio, ricupereremo le forze e vivremo una vita piena e deliziosa».  La preghiera come antidoto alla sfiducia…

E sempre nel Vangelo di Luca, più o meno a metà del cammino missionario di Gesù, torna l’argomento principe della preghiera. C’è una paraboletta, tra le tante altre, che mi ha sempre colpito in modo particolare, quella del giudice ingiusto e della vedova importuna: «Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai (…). Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 1.8). In questa parabola, la caratteristica principale della preghiera sembra essere l’insistenza. D’altronde, la preghiera si fonda sulla fede, e non c’è vera fede senza perseveranza. Credere significa anche insistere nella preghiera. Mi colpisce che la donna protagonista della parabola non si rivolga a un avvocato, ma vada direttamente al giudice, e per di più a “quel” giudice: una persona non particolarmente raccomandabile perché “che non teme Dio” e “non rispetta nessuno”…. tutto sembra meno che un giudice. Ma proprio qui è la chiave della parabola, perché solo una persona disperata potrebbe rivolgersi a un uomo così. Infatti, la donna si trova in condizioni disperate: ha perso il marito, non ha figli, non ha più di che vivere. La sua unica arma è la preghiera; una preghiera insistente, ad oltranza, contro l’evidenza, contra spem. Gesù intende incoraggiare esattamente questo tipo di preghiera. È come se dicesse: pregate come se fosse la vostra unica arma

«La vita spesso presenta delle sfide – scrive Iva Beranek, una donna che ha avuto il coraggio di raccontare la sua storia di vittima di abuso e di come ne è uscita, anzi guarita -. Se c’è stato un avvenimento doloroso nel nostro passato, o se stiamo vivendo un’esperienza preoccupante nel presente, non riusciremo a vivere appieno la nostra esistenza a meno che non l’affrontiamo in profondità. Qualcosa ci trascina giù, come un peso straordinario che rende più difficile respirare, più difficile camminare, più difficile trovare pace e gioia, forse addirittura più difficile amare». Dice benissimo: «a meno che non l’affrontiamo in profondità»! Quale altra esperienza ci porta più in profondità della preghiera? E se non è così, che preghiera è mai quella che facciamo?

La vedova della parabola è anzitutto immagine di Israele che, avendo perduto la preziosa presenza del suo Signore, non ha più pane per vivere né diritto da far valere. Ma Israele, se vuole, può rialzare il capo e gridare di nuovo a Dio affinché le renda il suo pane e i suoi figli. Facile per noi pensare che anche la Chiesa oggi possa sentirsi come la vedova della parabola: senza figli (o con pochi figli), senza sicurezza del futuro, senza armi veramente efficaci contro la prova della sfiducia… ma con la sua preghiera insistente. Bene, bene, direbbe Gesù, pregate così! E solo dopo aver pregato così, agite!

  1. L’educazione alla fede nella vita della Chiesa.

Si tratta ora di cercare/trovare una risposta alla domanda “che cosa fare” e “come agire”, dopo aver pregato e continuando sempre a pregare, in vista di una testimonianza di fede più radicale o forse semplicemente più coerente. C’è da considerare, infatti, che la tendenza a stare nella superficie delle cose sembra imperare ormai ovunque; sembra diffondersi l’attitudine a prendere tutto (relazioni, vita, morte…) come un gioco, nel quale vincono quelli che non prendono sul serio nulla.

A questo riguardo, vorrei rispolverare una parola antica: educazione. Educazione come risposta, educazione come azione non facile ma adeguata alla posta in gioco. Educare è ciò che urge fare di più e meglio. In particolare, educare alla profondità della relazione con Dio, educare alla preghiera per educare alla fede, per allenarci ad avere uno sguardo di fede sul mistero della nostra vita e sulla vita degli altri. «La preghiera è il respiro dell’anima», come dice Papa Francesco, ed è importante trovare il tempo e un buon metodo di pregare. Educare alla preghiera per educare alla profondità della vita. Non sarà che abbiamo smesso di educare alla preghiera? E non sarà che abbiamo smesso di educare alla preghiera perché abbiamo smesso di pregare? E non sarà che abbiamo smesso di pregare perché preferiamo vivere nella superficie delle cose e del tempo? Non sarà che ci illudiamo che questo approccio “lieve” ci salvi dalle angosce che minacciano il nostro cuore? Non sarà, invece, che non capiamo che proprio questa superficialità è la più grave causa della nostra angoscia?

Nell’ormai lontano 1971, in un avvertito documento pastorale dal titolo “Vivere la fede oggi”, i Vescovi italiani invitavano a “un doveroso esame di coscienza”. Essi osservavano che, al di là delle condizioni esterne, obiettivamente difficili, «esistono tuttavia precise responsabilità dei cristiani. La prima e fondamentale, riguarda l’inadeguato alimento della fede per mezzo di un’azione catechetica, corrispondente alle nuove esigenze. Questo insufficiente nutrimento della fede non può non riflettersi con particolare incidenza sulle nuove generazioni, le quali, lungi dal trovare nella famiglia lo stimolo ad una chiara presa di coscienza della loro fede, vi trovano spesso apatia, disinteresse, impreparazione, non di rado veri ostacoli» (N. 5).

Se potessi inventare degli slogan direi: “Educare bene, educare ancora, educare sempre, educare senza stancarsi, educare con amore, educare con passione, educare con competenza, educarsi per educare”, e via dicendo. Ho avuto modo di rileggere poco fa le parole di un teologo che non è più tra noi, Giovanni Moioli, in occasione di un corso di aggiornamento per catechisti parrocchiali, sul compito educativo nei confronti della fede, compito al quale siamo tutti chiamati come pastori, genitori, catechisti, ma direi soprattutto come Chiesa, nei confronti delle nuove generazioni.

Egli scriveva così:«Educare alla fede non è solo educare un uomo religioso. Certo, bisognerà far fare anche questo cammino, perché ci sono tante tappe per incontrare Gesù; bisognerà dare il senso che l’esistenza umana non è soltanto l’interesse o l’impegno pragmatico; bisognerà aprire al mistero dell’uomo, della profondità dell’uomo che trova il suo significato in Dio. Fatto questo passaggio, bisognerà introdurre a “sapere” Gesù, non solo a sapere ciò che i cristiani dicono di lui, perché questo sarebbe una specie di informazione sociologica. Educare alla fede è educare ad avere il senso della realtà che è Gesù Cristo, il senso dell’esistenza autentica che è quella secondo Gesù Cristo, lasciandosi provocare così come ci si lascia provocare dalla realtà. L’informazione è un momento, e non basterà dare il senso di Dio soltanto, che rappresenta l’ultima risposta al bisogno di assoluto che ha l’uomo, ma bisognerà arrivare al volto concreto di Gesù.

La catechesi dunque è un momento molto privilegiato e importante, dell’educazione complessa che dura tutta una vita; ma un uomo non sa la verità se non quando la verità lo provoca, gli fa male, lo contesta, gli dà fastidio. È la lotta di Giacobbe con l’angelo (cfr Gen 32,25-33), quando si avrebbe voglia di tenere lontano Dio e si arriva a invidiare chi non conosce queste cose, quando l’uomo incredulo che è dentro di noi vuole fuggire.

 

         Uno sa veramente, finalmente la verità quando la sua libertà si è messa in sintonia con questa verità. Dal punto di vista cristiano, i due termini correlativi adeguati non sono “verità” e “intelligenza”, ma sono “verità “ e “libertà”. La verità è Gesù Cristo e il termine correlativo adeguato alla verità che è Gesù Cristo non è la pura intelligenza. È anche l’intelligenza, ma più completamente è la libertà, che è là dove non c’è più separazione tra l’intelligenza e la volontà e l’amore, cioè dove l’amore, l’intelligenza e la conoscenza hanno ritrovato l’unità, quando l’uomo non è più diviso tra ciò che sa e ciò che fa,  quando il suo amore non cammina più lentamente della sua intelligenza. La libertà dell’uomo cammina a questa profondità; Gesù Cristo “è fatto” per suscitare la libertà dell’uomo che si lascia provocare dal sapere chi è lui.

         L’educazione alla fede si realizza quando un uomo nella sua libertà si apre alla verità, che è Gesù Cristo, incomincia questo cammino e, assumendo tutti gli aspetti della vita in coerenza con quello che sa di Gesù Cristo, finisce per conoscerlo in una maniera sempre più profonda, sempre più personale, sempre più propria».

  1. Conclusione.

Concludo con le parole dei Vescovi italiani nel documento del 1971 che ho sopra citato: «Coloro i quali credono fermamente che Gesù è il Figlio di Dio “vinceranno il mondo”, giacché “la vittoria che vince il mondo è la nostra fede”. A una condizione però: che questa fede sia consapevole, matura, autentica, coerente». (N. 7).

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