Omelie

«Il paradosso di una “maggiore perfezione”». Omelia del padre abate Bernardo per la professione monastica solenne di Dom Mauro Maria nella Solennità di san Benedetto


11 luglio 2020 – Solennità di San Benedetto
Prima professione monastica di Dom Mauro
Abbazia di San Miniato al Monte – Firenze

-Figlio carissimo che cosa chiedi a Dio e alla Sua Santa Chiesa?
-La misericordia del Signore e il dono di servirlo fedelmente nella vostra famiglia monastica di Santa Maria di Monte Oliveto
-Il Signore ti ammetta fra coloro che si è scelto
-Rendiamo grazie a Dio

Fratelli e sorelle, abbiamo riascoltato, pochi giorni dopo l’ultima domenica, un elogio della piccolezza, da parte del Signore Gesù, dal vivo del suo Vangelo.
Una piccolezza che ci interroga e che rimette in discussione le nostre pretese di grandezza, di dominio, di controllo, di determinazione della realtà. Parole queste ultime che forse sarebbero suonate come una astratta, o quanto meno remota, considerazione di valore al più spirituale, se fossero state pronunciate, evocate, ricordate in tempi diversi da questi, in tempi cioè che non fossero stati toccati dalla vicenda, che possiamo qualificare davvero globale, di una pandemia che, come ci ha ricordato il 27 marzo in una memorabile catechesi in una piazza San Pietro completamente deserta Papa Francesco, ha smascherato per così dire ogni nostra pretesa di ritenerci sani, sazi, soddisfatti, perfettamente compiuti, in una dimensione totalizzante dell’umano, potremmo aggiungere noi, ben lontana dunque da questo elogio della piccolezza, connesso all’elogio del servizio che il Vangelo di Cristo oggi propone al nostro Dom Mauro, anzitutto, che si accinge a fare della piccolezza e del servizio, per così dire, lo stile evangelico e monastico della sua vita, ma anche a pensarci bene oltre che naturalmente ai suoi confratelli e cioè alla nostra comunità monastica e per amabile estensione alla fraternità e alla sororità degli oblati, a tutta questa comunità credente che si abbevera, settimana dopo settimana, a quella sorgente di vita nuova che è il Cristo stesso, il suo costato aperto, in una speciale interpretazione che del Vangelo e dell’esperienza della Chiesa del Signore Gesù offre la tradizione monastica e in modo particolare la scuola del servizio divino istituita da San Benedetto.
E credo che sia molto importante sottolineare proprio questo, come già ci ha invitato a fare la preghiera iniziale indicando in San Benedetto colui che ha istituito per l’appunto, come si legge nel Prologo della Regola, una scuola del servizio divino, questo tratto per così dire, scolare, che deve caratterizzare in profondità il cuore di ogni monaco e, per una sorta di empatia con la comunità monastica che frequentate, tutti voi.
Dom Mauro pochi istanti fa si è reso disponibile, per grazia e per mistero, ma anche per preciso intendimento della sua volontà, a perseverare fino alla morte nella famiglia monastica della nostra congregazione di Santa Maria di Monte Oliveto, e in modo più specifico nella nostra comunità monastica di San Miniato al Monte per una «maggiore perfezione».
Così, sfidando il buon senso lessicale, osa dire il cerimoniale monastico, come se si possa pensare una perfezione maggiore, quando invece la perfezione, se è veramente tale, non si può pensare più grande di quello che già è, e tuttavia questo paradosso linguistico corrisponde proprio al paradosso della vita monastica la quale osa, per obbedienza allo Spirito Santo, distillare per così dire il Vangelo, renderlo di una intensità, di una concentrazione davvero straordinariamente forte, che quasi stordisce la nostra tentazione di accomodare il Vangelo stesso, di rassegnarci ad una perfezione che quotidianamente svilisce inevitabilmente in una mediocrità di accomodamento, di mediazione, di rassegnazione, fino a diventare vere e proprie malattie dei nostri cuori e cioè la disperazione, e cioè la brama di potere, e cioè la presunzione, e cioè il dominio, tutto quello che gradualmente corre il rischio di trasformare la cellula ecclesiale che siamo chiamati ad essere, in una vera e propria contraddizione col Vangelo di Cristo.
E allora ben venga, vorrei dire in ogni chiesa, questo laboratorio e questa distilleria dove si raffina per così dire il Vangelo in vista di una paradossale, ma di fatto indifferibile, mai trascurabile, maggiore perfezione.
Non da intendersi, sia ben chiaro, in un senso moralistico, o un in senso peggio ancora di presuntuosa consapevolezza di essere dei prescelti, in forza di chissà quale qualità intrinseca del nostro cuore. No! Il laboratorio è un laboratorio che sceglie, anzi, proprio i più fragili, i più contradditori, i più presuntuosi, i più malfatti perché proprio offrendo questo nostro materiale inerte e refrattario della nostra contraddittoria condizione umana, ancora più forte sia, ancora più sperimentabile sia, ancora più efficace sia il travaglio con il quale la grazia trasforma il poco, il niente che siamo in maggiore perfezione.
Un laboratorio dunque dove il buon profumo di Cristo, la distilleria dell’essenza che la grazia inaugurata nel Battesimo, nel profondo del profondo del nostro cuore possa gradualmente ritrovare la strada fino a permeare tutto di noi in una trasfigurazione resa possibile da uno sforzo scolare, discepolare, che è risposta obbediente, gioiosa, perseverante all’invito che Cristo maestro ci fa ad un ascolto che non è un ascolto e non può essere un ascolto episodico, affettivo, psicologico, sentimentale, discontinuo e cangiante.
Qui si tratta, fratelli e sorelle, di lasciarci circoncidere il cuore, di lasciarci tagliare le orecchie perché sanguinino e segnalino in superficie quella ferita del nostro cuore che la nostra ipocrisia sa bene avvolgere perché attraverso questo orecchio sanguinante il nostro cuore scopra e riscopra l’unico farmaco capace di guarire questa nostra presunzione e cioè la parola direi sponsale, con la quale il Signore invita a nozze il suo popolo pur sapendolo adultero, pur sapendolo infedele, stanco, pur sapendolo pieno di contraddizioni, lo invita perché, rinunciando alla sua presuntuosa grandiosità, si scopra piccolo, fragile, e proprio perché piccolo e fragile disponibile a lasciarsi abbracciare, circondare dall’amore di Dio.
Ecco dunque che il laboratorio scolare di San Benedetto ci sembra oltremodo utile, direi quasi tempestivo in tempi come questo, dove l’elogio della piccolezza, l’elogio del servizio appaiono ora più che mai la via per un ritrovato umanesimo del servizio alla condizione umana, ovunque essa abbia il coraggio di riconoscersi malata, messa alla prova, insufficiente, e lo diciamo non con il compiacimento di chi, in forza del male subito, sventola Dio come una ideologia che dà ragione ad una fede ridotta all’orpello di appartenenza. Nulla di tutto questo. Noi siamo invitati dalla verità che consiste nell’umiliazione, che pure la pandemia ha apportato alle nostre pretese, perché tutti noi ci riscopriamo soggetti, e nello stesso tempo oggetti, di quella parabola che mette in luce tutta la vicenda del Signore Gesù come risonanza concreta, terapeutica, qualificante dell’amore del Padre celeste, è la vicenda di quel buon samaritano che in nome del servizio si piega sulla piccolezza ferita a morte e che nella commozione di queste ferite istituisce quella chiesa raffigurata da un albergo dove si mette a riposo chi è stato percosso, gli si pagano le necessarie cure, che simboleggiano quei sacramenti con i quali il Signore Gesù, attraverso questo luogo ospitale, continua a prendersi cura della nostra umanità ferita.
E così riscopriamo il monastero come luogo di accoglienza, come albergo dove il viandante del nostro tempo, chiunque esso sia, riconosciuto e riconoscibile non per la sua nazionalità, per la sua lingua, per il colore della sua pelle, per le sue idee, per il suo credo, ma solo e soltanto per le sue ferite, ha diritto, in Cristo, di trovare riposo e ristoro, come ci insegna la Santa Regola per l’appunto.
E questa via umile e servizievole che fa il piccolo grande, in nome di un umanesimo commisurato sulle stesse dinamiche del Signore Gesù, sulle dinamiche del suo essere grandezza che si contrae in una piccolezza che serve, che trasfigura, che ribalta i nostri criteri di giudizio, di appartenenza, di identità.
Ecco tutto questo offro all’intelligenza spirituale, in modo particolare di Dom Mauro, ricordandogli ancora una volta come questo tratto scolare debba essere cifra esistenziale della sua vita, come tratto di riconoscibilità del suo cuore, come dinamica del suo pensare, in modo che tutto di lui, sia esistenzialmente segnato dall’esperienza che rende riconoscibile il vero monaco di San Benedetto, che non può essere che l’umiltà.
Per questo la nostra piccola comunità nei primi giorni della pandemia, come ben si ricorda Mauro e tutti i nostri fratelli, abbiamo deciso di riscoprire la magna charta dell’esperienza monastica, della Regola, cioè questo meraviglioso e non a caso, VII capitolo della Regola, il capitolo dell’umiltà.
Perché avevamo paura, come voi, di questa pandemia, avevamo un senso di incertezza, come voi, circa il futuro che ci attendevamo, avevamo quasi diffidenza l’uno dell’altro, come voi, perché in quei primi giorni nemmeno sapevamo se in mezzo a noi ci poteva essere una pecora infetta, senza saperlo ovviamente, dal virus.
In tutta questa dimensione c’era parso che l’unica via di uscita fosse confessare l’Humus che siamo, la terra che siamo, perché essa fosse concimata e resa, attraverso la rugiada dello Spirito, generosa e feconda di futuro attraverso proprio l’umiltà, questa esperienza di trasfigurazione che Benedetto ci raccomanda proprio per essere nella Chiesa e nel mondo il luogo della piccolezza , il giardino del servizio, il laboratorio dove si distilla l’essenza del Vangelo il cui profumo, paradossale in mezzo a tristi odori delle nostre presuntuose smaltature sintetiche, ricordi questa paradossale via evangelica che offre a ciascuno di noi l’avventura, lessicalmente improponibile, logicamente assurda, di una «maggiore perfezione». Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini
La fotografia è di Mariangela Montanari

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