Omelie

«Dalla notte di Betlemme alla fede di Ninive». Due omelie del padre abate Bernardo fra Natale e Candelora

24 dicembre 2020 – Omelia della Messa della notte di Natale

Dal Vangelo secondo Luca

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Omelia:

Fratelli e sorelle, era molto importante che voi foste qui stasera anche se poteva sembrare una Messa surrogata, una Messa compensatoria di una tradizione secolare, ma ormai desueta, insignificante per i nostri cuori, per i nostri sensi, per l’intelligenza della nostra fede.

La vostra presenza dimostra la vivacità della nostra appartenenza ad un mistero che stasera ci avvolge di una luce, di una esperienza, di una promessa che inizia ad adempiersi con parole fortissime, oltremodo necessarie al  lessico della speranza con il quale iniziare l’anno ormai vicino.

Parole come pace, come gioia, come luce, parole come amore, ma anche una parola fondamentale: oggi.

Oggi è quasi un ritornello nel Vangelo di Luca e sovente nella nostra liturgia, con questa pretesa fortissima che sta nel nostro cuore, stasera più che mai, quello che noi abbiamo ascoltato, quello che ci è stato raccontato, non è una sorta di esperienza che la memoria archeologica di un popolo, di una cultura, di una tradizione offre alla nostra intelligenza come se fossero gli ingredienti di un presepe da ricostruire stancamente per non perdere di vista un passato nel quale rifugiarci e trovare una sorta di conforto.

No! La liturgia e il Vangelo stasera ci avvertono con grande chiarezza: oggi è nato per noi il Salvatore, oggi, questo istante qui è visitato nella sua precisione cronologica da quell’eterno che sa contrarsi fino a tagliare di netto il fluire del tempo e a rendere questo nostro istante un oggi completamente inabitato da una luce che viene a segnare un nuovo inizio per ciascuno di noi.

E per questo passaggio fondamentale, fratelli e sorelle, da un fluire di tempo senza qualità ad un istante qualificato da un oggi che per noi è davvero ricapitolazione di una storia, era e resta fondamentale questa alternanza, questo passaggio, questa fecondità che noi avvertiamo, subiamo, attraverso il volgere delle tenebre nella luce, certo questo passaggio in realtà era molto più eloquente, molto più forte, molto più significativo se ci trovava più assonnati, più stanchi, paradossalmente collocare la Messa nel cuore della notte, la Messa della mezzanotte, serve proprio a questo, farci riscoprire nel torpore l’insufficienza del nostro raziocinio e la sete che hanno i nostri sensi di sentirci anche noi avvolti dalle fasce, deposti nella mangiatoia, affidati ad una oscurità che ci riporta sia da un punto di vista psicologico, corporeo, e soprattutto spirituale, in quel grembo da cui prende inizio la nostra storia,  non solo la nostra vicenda biografica, ma più che mai la storia della nostra comunità ecclesiale, della nostra città, del nostro paese, del nostro continente, del mondo intero che senza la possibilità di tornare ad attingere al suo inizio qualificato dalla fecondità di un oggi disponibile ai miei sensi, al mio cuore, alla mia memoria, alla mia speranza, esattamente in questo istante, farebbe di tutto quello che noi facciamo dentro una chiesa, solo e soltanto una inutile recita.

Non è così, fratelli e sorelle, perché come è stato proclamato nella prima lettura, noi stasera siamo i testimoni, in penombra e con un velo di rispettosa discrezione, di pudicizia, perché avviene qualcosa di straordinario che non può essere visto faccia a faccia e nemmeno basta la mascherina per proteggere l’evento di grazia che celebriamo stanotte e che non ha nulla di compensatorio, non ha nulla di surrogato, ci bastava un unico ingrediente e quello c’è in abbondanza, l’oscurità che ci avvolge e che rende questa nostra Basilica, se la poteste vedere da fuori adesso, come una sorta di scrigno di luce che emana chiarore, che emana forza, che emana pace, che emana protezione, che emana tepore dalle sue piccole, ma ben calibrate finestre, e ne fanno così davvero, fratelli e sorelle, una cittadella di perfezione, non perché siano perfetti i monaci che la abitano, ovviamente, ma perché lo vedete, alzate lo sguardo, non c’è niente che sia irregolare, l’unica irregolarità è il nostro andamento liturgico un po’ emozionato, un po’ impacciato, un po’ stanco anche per l’anomalia di quest’ora, il resto è tutto perfezione perché questa Basilica è lo specchio, il riflesso del cielo, perché la città contempli la dignità, la bellezza, la ragionevolezza, il significato profondo del nostro vivere e del contesto dove Dio colloca il nostro vivere, uno spazio ed un tempo di qualità che noi stasera possiamo recuperare perché oggi  è nato il Salvatore, non ieri, non domani, oggi, con questa chiarezza, fratelli e sorelle, con questa forza fosforescente, cioè capace di portare luce dove erano le tenebre e dunque si comprende di cosa siamo testimoni noi stasera, fratelli e sorelle, per questo è molto importante la vostra presenza, perché noi contempliamo uno sposalizio, lo sposalizio che rende la terra, un tempo disabitata, sterile, abbandonata, la rende come questa Basilica, uno scrigno, una perla, una zolla specialissima dove fioriscono come nel nostro pavimento centrale, fiori di ogni specie, e su questi fiori si nascondono per trovarvi nutrimento uccelli rari ed esotici, noi contempliamo fratelli e sorelle, questa misteriosa simmetria di bellezza fra terra e cielo, umanità e divinità,  frammentarietà del nostro vivere, perfezione delle intelligenze astrali che Dio ha voluto perché tutto si svolgesse in un’armonia che non è una nostra illusione, non è una nostra illusione, ma quanto la fede ci fa finalmente contemplare se ha questo coraggio di investigazione inarrestabile. E allora fratelli e sorelle davvero, siate testimoni di questo sposalizio, siate testimoni di questa densità nello stesso tempo quasi ineffabile e nello stesso tempo di una dolcezza e di una tenerezza altrettanto inenarrabili, perché lo sposalizio ha come frutto di grazia un bambino, come accade ed è accaduto ed accadrà si augura a tanti di voi, e come in fondo può accadere anche a noi monaci, anche noi siamo chiamati ad una paternità, Bernardo arriva a dire ad una maternità, nella misura in cui da cuori refrattari, duri, ormai resi sterili dalla nostra disattenzione, torniamo ad essere come è questo luogo, spazio di bellezza, fatto per lo scopo di accogliere e far riverberare la parola che oggi riporta il respiro di Dio nella nostra storia e i cui segni sono per l’appunto pace, gioia, consolazione, luce, tepore.

Questo va visto nel grande mistero natalizio di modo che dalla culla di Betlemme, dalla piccolezza infantile di un bambino noi dobbiamo essere capaci di tirare come delle linee rette, ve lo dico io che ero e sono un disastro in geometria e nel calcolo ma, guai se ci fermassimo ad una contemplazione esclusivamente psicologica, devota, importante certamente la devozione, ma incapace di tirare per così dire, le estreme conseguenze con la forza dello Spirito, di quello che significa la generazione del Figlio, che prende la nostra stessa carne, che abita questa nostra storia, che si muove in questi nostri spazi, oggi, oggi!

Significa che la nostra fede deve essere capace di aprire sempre nuove linee prospettiche che si aprono da questo crinale abitato dall’umiltà di Dio e spalancato alla vocazione dignitosa del nostro vivere, dell’ergerci, come avete fatto sapientemente voi stasera su questa collina per recuperare una visione dall’alto sulla vita della nostra città, sulla vita delle nostre famiglie, sulle conseguenze di un evento di questa portata sponsale nelle strettoie delle nostre vicende, si dice oggi globali, che poi tanto globali non ci paiono vista la ristrettezza di sguardi, di lungimiranza, di profezia che spesso ci rende costretti ad annotare cronache di bisticci, di contrapposizioni, di bassi interessi.

Un Dio che sceglie questo spazio qui per abitare, fratelli e sorelle, spalanca  davvero linee enormi, sconfinate e dà la possibilità anche a noi di guadagnare questo tipo di visione, questo tipo di prospettiva, qui avete un campione, per così dire, nella concentrazione simbolica, geometrica di questo spazio che voi saggiamente frequentate, perché se non ritroviamo una misura alta con cui tornare a guardare alla realtà, noi perdiamo sempre più di vista il significato profondo del nostro vivere, delle nostre responsabilità, dello stesso generare vita nuova.

Stasera impariamo da Dio cosa significhi albergare vita nuova, contrarsi per dare spazio alla novità, e noi questo non lo facciamo più, abbiamo paura del nuovo, ed è la vicenda che lo stesso Signore Gesù subirà fra pochissime ore, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, la vita nuova che pulsa oggi, ogni inizio è minacciato costantemente da coloro che temono la profezia, che temono la novità, che ci vorrebbero convincere ad accorciare quelle linee che noi coraggiosamente stasera, deflagrati dall’energia di questo infante, apriamo, spalancando i nostri cuori, rafforzando i nostri sensi, velocizzando i nostri ragionamenti.

Basta con l’idea per cui ci si debba considerare dei minorati, intellettualmente minorati, perché abbiamo bisogno della Messa, abbiamo bisogno della mezzanotte, stasera vorrei che fosse chiarissimo l’appassionato esercizio di intelligenza, di inquietudine, di totalità, di dedizione alla realtà che ci spinge ad essere qui stanotte, che ci avrebbe spinto volentieri ad essere qui ancora più stanchi, ancora più disorientati, simbolo del disorientamento di questi mesi, irriducibile, lasciatemelo dire,  alla banale formula, finalmente adesso in disuso essendosi mostrata in tutta la sua superficialità dell’ “Andrà tutto bene”.

E basta anche fratelli e sorelle con questo storytelling, si dice così oggi, del tempo sospeso, adesso comprendiamo benissimo che non esiste un tempo sospeso, quello che a noi pareva un tempo sospeso dove rifugiarci con l’illusione che passasse tutto, si mostra invece un tempo nel quale dobbiamo fare rifornimento ulteriore di energia, di lungimiranza, di profezia perché, come è sempre successo, sfogliate Boccaccio, sfogliate Petrarca, le epidemie procedono per onde, funziona così questo male e noi dovremmo avere la capacità, che i medioevali avevano, pur non conoscendo nemmeno l’idea stessa di un vaccino, di impegnarsi in un tempo di qualità, risvegliato dalla profezia di quei matti, di quelle matte, che si nutrivano solo di Eucaristia per ricordare alla comunità cittadina, prima ancora che ecclesiale, che non di solo pane vive l’uomo, non di solo supermercati, non di solo balere e via di seguito, lo dico senza moralismo, anche io vado al supermercato, sapessi ballare anche io andrei in discoteca, ma quello che serve fratelli e sorelle, è una visione integrale che stasera, questo infante porge alla nostra stanchezza, al nostro disorientamento, al nostro torpore, ma anche alla nostalgia che oggi diventa lucida consapevolezza di una misura altissima del nostro vivere che corrisponde alla altezza di un Dio che sceglie il nostro niente,  per farci partecipi del suo tutto.

Questo è il Natale ed è in questa prospettiva che vi chiedo di essere, ognuno di voi, testimoni, come succede a un matrimonio, della grazia speciale di cui siamo stasera, con lui dietro di me, straordinari protagonisti. Amen!

24 gennaio 2021 – III Domenica del Tempo Ordinario

Dal libro del profeta Giona
Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore.
Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta».
I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.
Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!

Dal Vangelo secondo Marco
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, la liturgia del tempo intermedio fra il Natale e l’inizio della Quaresima è una liturgia che soffre un po’ una collocazione stretta fra due stagioni molto forti, espressive di grandi misteri che dicono tantissimo alla nostra esigenza di comprendere un po’ di più e un po’ meglio il senso di quello che siamo, il senso di quello che celebriamo, e soprattutto il senso del Dio che attraverso le celebrazioni e le domande che esse suscitano nei nostri cuori, vuole dirci di sé.

Il Natale lo abbiamo ancora vivo nel nostro ricordo, come esperienza dell’incontro con Dio che manifesta sé stesso, fratelli e sorelle, in una sintesi più teologica e meno narrativa, cioè più attenta al cuore del mistero che alla sua esplicazione nel racconto che abbiamo tutti noi ascoltato a Natale e messo in scena nei nostri presepi, questo vuole dirci: il Natale è il tempo in cui la Chiesa fa memoria, confortandosi, attraverso la memoria, della manifestazione piena e definitiva di Dio nella nostra stessa corporeità umana.

Nel tempo di Quaresima, che inizierà quest’ anno peraltro abbastanza presto, direi anche coerentemente con la pandemia che stiamo vivendo , sarà per così dire, sottoporre a restauro la nostra condizione umana che, per così dire, è stata investita dal bagliore natalizio, la luce che ha brillato nella notte di Betlemme, per i pastori prima, poi attraverso la cometa è giunta fino allo sguardo di popoli lontani, rappresentati dai Magi, infine come forza dello Spirito Santo è emersa dalle acque del Giordano per una definitiva, cosmica manifestazione del Cristo come Signore che rigenera tutti gli elementi.

Questo movimento epifanico, fratelli e sorelle, dovrebbe aver raggiunto i nostri sensi, la nostra intelligenza, ho insistito tanto –perdonate questo tono un po’ didascalico, da supplente delle medie, con tutto il rispetto per i supplenti e per le medie, ma mi sento un po’ così, come colui che riprende un programma avviato da altri- insisto moltissimo perché davvero non voglio che il Natale sia una cornice, in una qualche misura ristretta a questo tempo delle feste natalizie, sulle quali insistono ormai da tempo tante di quelle paccottiglie che corrono il rischio di confondere anche la nostra lucidità austera, vagliata dalla nostra fede, dal tormento della nostra fede, che mira all’essenziale soprattutto voi fratelli e sorelle, che questa fede l’avete messa alla prova nella luce drammatica, più penombra che luce, della pandemia.

Quanti vi avranno detto: -Ma il vostro Dio cosa fa in questo tempo di pandemia? Come fate a credere in questo tempo di pandemia? Dov’è il bene, dov’è l’amore promesso dal vostro Dio?

Queste domande restano nei nostri cuori e ci agitano, devono agitarci. Per cui il Natale ci ha illuminato, in ordine anche a queste grandi domande, raffinando il nostro sentire su un Dio che spoglia sé stesso nascendo come è nato, lo abbiamo detto tante volte, levate le luminarie natalizie –quest’anno peraltro così assurdamente riproposte in un contesto come questo che doveva semmai proprio fare riscoprire a tutti, credenti e non credenti, il vero significato del Natale, l’impoverimento di Dio che si inabissa nella condizione umana,  nell’argilla della nostra carnosità, così provvisoria, da questo movimento di discesa della luce divina nella nostra terra, un bagliore, il bagliore di Natale.

E questo bagliore persistente, fratelli e sorelle, diversamente dalle luci cangianti e variopinte che come gli addobbi si levano quando le feste sono finite, ha illuminato la nostra condizione umana, mostrandola in tutta la sua fragilità, debolezza, paura, angoscia, le domande di cui parlavamo prima.

E allora ecco che, consapevoli di queste grinze, per non dire crepe, volentieri, partendo dalla cenere quaresimale, ci sottoporremo a questo cantiere della Quaresima, mi piace proporvelo così, per non spaventarvi, la Quaresima è un bellissimo dono del Signore, davvero un luogo dove viene decostruita la nostra presunzione per rinascere come uomini e donne nuove nella luce del  Risorto.

Questo l’arco temporale nel quale più o meno siamo inseriti, fratelli e sorelle, dunque queste settimane di tempo ordinario in un certo senso sono un ponte fra la memoria del Natale in questo significato denso, teologale che mi sono permesso di risottoporre alla vostra pazienza e la prospettiva che spesso scoraggia, ma che in realtà vorrei da oggi affascinasse i vostri cuori, del cantiere quaresimale.

Del resto questa pagina di Vangelo è una pagina di Vangelo che mostra due esperienze di morte, dalle quali il Signore come Pasqua dà avvio ai  suoi passi, tra l’altro notate che c’è il mare, la riva, una grande allusione quando vedete il mare nella Bibbia, in modo particolare nel nuovo testamento, il mare è la morte. Levatevi l’idea che il mare sia vita, che sia una sorgente di, come per noi l’estate, di refrigerio, il mare è la morte, Israele, gli Ebrei temono l’acqua e il mare è la morte.

Il Signore Gesù che cammina sulla riva ha già un sapore pasquale, e lo deve avere, lo avete ascoltato, Giovanni è stato messo fuori gioco, in carcere, cioè morto. Quindi il Profeta che annunciava la tensione di Israele decapitato, non c’è più attesa in Israele.

Ancora, Gesù viene dal deserto, da una esperienza che noi affronteremo fra qualche settimana, dal 17 febbraio in poi, un deserto nel quale anche lui si è umilmente sottoposto al restauro, di che cosa? Della sua figliolanza, confermata per così dire nella nuova condizione che sta vivendo e in un certo senso subendo la nostra terrosità, diteglielo a chi vi fa obiezione di fede, noi non crediamo in un generico Dio tappabuchi o in una sorta di Dio dalle mille luce superpotenti, noi crediamo in un Dio che si manifesta attraverso la debolezza carnosa, terrosa del Signore Gesù, che sporca i suoi piedi nella sabbia e nel fango del deserto per ricondurre lui e noi in quello che impara in quei giorni di deserto, cioè l’essere figlio che si fida del Padre e che come tale a quel Padre consegna tutto in una esperienza che dunque, entriamo nel vivo del Vangelo, vi ricordate le tentazioni del diavolo, non assolutizza quello che incontra nella vita perché sa che l’unico vero assoluto non sono i doni, ma colui che ci dona i doni.

Questo è quello che Gesù impara nel deserto.

E che dovremmo imparare anche noi, lo avete ascoltato da Paolo, “quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero” , cioè non assolutizzate ciò che è relativo.

E questa esperienza di discernimento è generata, guarda un po’, dalla fede, la fede del Signore Gesù che respinge la tentazione del diavolo, perché anche Gesù deve imparare a credere, fratelli e sorelle. Ma che cosa meravigliosa questa, sentiamo che le nostre risposte alle provocazioni, ai dubbi o addirittura, come dire, alle ironie sarcastiche dei nostri avversari trovano, non dico una risposta esaustiva, ma una traccia, noi crediamo in un Dio che si fa carne e in questa carne impara l’obbedienza dalle cose che patisce -lettera agli Ebrei- e impara a credere, a riconoscere un Padre attraverso le prove della tentazione. Se Gesù passa attraverso questo cantiere ci possiamo e ci dobbiamo passare certamente anche noi fratelli e sorelle, con un senso bellissimo di domanda, di inquietudine, di tormento, che sono aggettivi essenziali della fede seria che si misura in modo austero e tuttavia appassionato col grande mistero della vita, senza pretendere di avere una risposta pre-confezionata, ma passandoci nel mezzo: Gesù nel deserto, Gesù sulla riva, fra la terra asciutta, simbolo della  possibilità di una esistenza e il mare che la soffoca e la ingoia sopprimendola.

Gesù passa nel mezzo, fratelli e sorelle, e questa esperienza è davvero l’esperienza che ci dà un senso davvero importante di liberazione, è l’esperienza che accende la luce nei nostri cuori e rende le nostre pupille capace di affidarsi ad una supervisione che arriva a cogliere l’invisibile, ma non perché noi crediamo in chissà che cosa, dentro questo invisibile, come se fosse una strana commedia di Shakespeare o chissà quale altra situazione tipo film giallo, noi crediamo all’invisibile perché attraverso la fede, risaliamo dai doni a colui che ci ha consegnato questi doni, ci può piacere credo questa definizione di fede, che non si ferma dunque all’immediatezza, assolutizzando, ma imprime un movimento, una risalita, ancora una volta un’inquietudine, una ricerca, fratelli e sorelle, della nostra intelligenza, del nostro cuore, e anche della nostra consapevolezza circa i nostri fallimenti, peggio ancora le nostre ingiustizie, le nostre storture, quanto siamo abili a darci sempre e comunque ragione nonostante il male che sappiamo generare, senza essere sollecitati nel dubbio dal male che generiamo.

Anche questo, questa pandemia dovrebbe farci riflettere, facile assegnare tutte le responsabilità a Dio, molto meno facile è domandarsi se questa pandemia ha trovato così facile strada, e continua ad avere così facile strada, perché forse qualcosa dipende anche dalla nostra incapacità di usare bene i doni che abbiamo ricevuto.

Ma vedete che nel passaggio che abbiamo ascoltato del profeta Giona c’è un momento centrale, rivelativo di una novità che cambia l’esistenza di una città intera e che si riassume con questa parola bellissima, semplice, che voglio leggervi per come l’abbiamo ascoltata:    “I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli”

Tutta la città, anche i bambini, tutti si sono scoperti invitati, attraverso la parola di conversione di Giona, a riscoprire che in mezzo a tanti doni male usati, c’è l’indizio, la traccia, il riverbero, di colui che ce li ha donati e che ci chiede di usarli meglio, di crescere in una qualità di relazione fra di noi e con lui.

Ecco l’esperienza fratelli e sorelle, direi nemmeno rivelativa, oggi direi cognitiva della fede, che ci apre a un invisibile, non come ambito di suggestione nebulosa, fantasiosa, morbosa, inquietante, non è questa la fede nel Signore Gesù.

La nostra, grazie a Dio, è una fede che ci toglie tanti apparati che fanno parte, non dirò di quella paccottiglia perché sarei offensivo, ma anche di quel modo con il quale l’uomo gestisce la paura di tutto quello che non riesce ad afferrare. In questo senso il cristianesimo opera una grande demitizzazione, in generale tutta la parola biblica, proponendoci quindi una fede sobria, asciutta, austera, l’uomo e Dio, nel mezzo le forze del male che ci sono, eccome se ci sono, ma non viene loro assegnato un dominio, un regno, una forza tale da poter prevaricare sul primato di Dio.

E questo è dire tantissimo fratelli e sorelle, di una modalità nuova, piena di responsabilità per la nostra libertà, per la nostra coscienza,  che non avrà più la scusa di assegnare a quel demonio o a quel tuono o quel fulmine o a quel capriccio divino, quella o quell’altra conseguenza sciagurata che altri sono costretti a subire.

E allora fratelli e sorelle, in questo scenario di responsabilità e di libertà, la parola conversione assume una forza che non è soltanto, come dire, cambiare casacca, cospargerci un po’ di cenere e continuare come prima o peggio di prima, no! Significa una esperienza di radicale rinnovamento del nostro cuore, grazie a quella luce che abbiamo incontrato la notte di Natale, che illumina gli abissi del nostro cuore, mette in luce le sue potenzialità e le sue debolezze e il fuoco che genera la cenere della Quaresima sarà il fuoco che purificherà questa nostra consapevolezza, che oggi Paolo riassume nell’invito fortissimo a riconoscere da un lato la relatività di quello che noi, per paura, per egoismo, per poca fantasia, saremmo tentati di ritenere assoluto, questo nostro mondo assoluto, questo nostro tempo assoluto.

E’ una delle grandi conquiste del pensiero filosofico, porre in essere l’eternità e l’infinito del tempo, e del mondo, e dello spazio , ma il cristianesimo non crede in questo fratelli e sorelle, crede nella provvisorietà di tutto questo per una esigenza più profonda di amore e dunque di giustizia e di pace, avviandoci a sperare, con l’Apocalisse, in cieli nuovi e terra nuova.

E allora, e concludo, perché avevo detto in sacrestia che sarei stato breve, ma come giustamente profetizzavano loro, il sonno avrebbe moltiplicato le parole anziché accorciarle, a vostre spese, mi interessa condividere quello che mi sono accorto in questa lettura, con voi, in questa celebrazione, in questo Vangelo asciutto, Marco è difficile da commentare perché è un Vangelo spartano, pochi addobbi, molta sostanza, ma scabra e quindi chi come me gioca con le parole si trova un po’ in difficoltà. Però in questa asciuttezza oggi mi sono accorto di un dettaglio molto interessante, i primi discepoli –vi giuro non l’ho letta in questi prontuari di omelie che circolano, ci sono i bignami anche per noi preti, non ve lo diciamo ma ci sono, però è bene non usarli- prima scena, gettare la rete, seconda scena, gli altri chiamati riparano le reti.

Ecco questa pluralità di servizi con le reti, in ordine per loro prima di incontrare Gesù a pescare pesci, dopo a pescare uomini, mi sembra sia anche una immagine bellissima con la quale lasciarci, sentire che c’è una diversità di servizio, una articolazione di responsabilità, di carismi, nei quali però siamo tutti coinvolti, poca importa chi è impegnato a gettare la rete, perché se d’altra parte non c’è chi la rassetta e la rammenda  questa rete non funziona più, e in questa articolazione complementare di diversità, sento che possiamo sentirci tutti raggiunti da una alleanza verticale perché quella chiamata del Signore Gesù continua, con la forza dello Spirito Santo, a interpellare ciascuno di noi e d’altro canto una alleanza orizzontale, ecco magari voi penserete che noi monaci, preti siamo quelli che devono gettare le reti per pescare uomini, in parte è davvero così, ma non è detto che non lo siate anche voi e che magari domenica prossima a noi tocchi rammendare le reti che voi avete usato durante questi giorni nel mondo, nella città di Ninive, fuori da queste porte, per riportare al Signore un po’ di uomini e donne pesce, che possano finalmente essere al sicuro nella vasca del Regno di Dio.

In questa articolazione, segno di una alleanza fra cieli e terra e fra i nostri cuori, mi sembra si possa riprendere il cammino di riavventurarci nei giorni che il Signore ci prepara dopo questa Domenica. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia ritrae una torre a Glastonbury in Inghilterra ed è stata scattata da Peter Cziborra nel gennaio 2020.

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