«Cura e premura per lo stadio Artemio Franchi di Firenze». Una lettera aperta del padre abate Bernardo al Direttore della Repubblica di Firenze

«Cura e premura per lo stadio Artemio Franchi di Firenze». Una lettera aperta del padre abate Bernardo al Direttore della Repubblica di Firenze

Meditazioni

«Facciamo un salto nel passato. Pausania afferma che si può dare il nome di “città” ad un raggruppamento di costruzioni “che non possiede né edifici amministrativi, né ginnasio, né teatro, né piazza pubblica, né fontane alimentate da acqua corrente”. Così la definizione di città secondo Pausania, è anteriore alle costruzioni di edifici pubblici e risiede nel rapporto sociale che persone o gruppi riescono a determinare fra loro. Così, una città è tale prima ancora che sia costruita e non è tale soltanto perché sono sorti edifici pubblici. Una città è, o poteva essere, prima ancora che fosse posta la prima pietra». Carissimo Direttore, mi permetto di entrare nel vivace dibattito sulle sorti dello stadio Artemio Franchi se non altro per condividere l’intuizione secondo la quale, alla luce di queste splendide parole di Giovanni Michelucci, la collocazione della prima pietra, ma anche la rimozione dell’ultimo mattone di un qualsiasi edificio pubblico della nostra città ci interpella, ancor prima che su valutazioni propriamente architettoniche ed urbanistiche, a riguardo della qualità del «rapporto sociale» che siamo stati capaci di generare e che eventualmente intendiamo salvaguardare. Tale interrogativo sarebbe bene scomodasse sempre la nostra coscienza, tentata di dimenticare, prima di ogni gesto edificatorio o demolitorio, che in realtà la «città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico». Così lucidamente si esprimeva in anni recenti Mario Luzi, memore del magistero politico di Giorgio La Pira secondo il quale la città è un vero e proprio «contesto organico» di così grande delicatezza da chiedere a qualsiasi nostro agire nella stessa polis il paradosso di uno sguardo contemplativo capace di riconoscere, nel concreto articolarsi di spazi e di edifici pubblici e privati, la filigrana di un oggettivo e mai scontato primato, quello del bene comune. Di quest’ultimo fu rigoroso e vigile garante lo stesso Sindaco che, inaugurando il quartiere dell’Isolotto nel novembre del 1954, così poteva rivolgersi alla sua gente: «Ogni città racchiude in sé una vocazione ed un mistero… amatela, quindi, come si ama la casa comune destinata a noi ed ai nostri figli. Custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole». E poco prima: «Voi siete piantati in essa: in essa saranno piantate le generazioni future che avranno da voi radice: è un patrimonio prezioso che voi siete tenuti a tramandare intatto, anzi migliorato e accresciuto, alle generazioni che verranno». Mi sembra sia questo l’ineludibile e tutt’ora attuale orizzonte etico, culturale e politico entro il quale articolare il dibattito sul futuro del Franchi e dell’intera nostra città, un orizzonte nel quale riconoscere i tratti essenziali di un vero e proprio umanesimo della cittadinanza che non a caso prende le mosse con piena consapevolezza di sé allorquando Filippo Brunelleschi fa dello Spedale degli Innocenti -e non di una dimora privata- l’incipit di quella straordinaria vicenda estetica e civile cui tutte e tutti noi apparteniamo e che mai vorremmo si concludesse con la demolizione, anche parziale, di un capolavoro di architettura come l’organismo di Pier Luigi Nervi. In esso ci è dato di riconoscere la cifra, la misura, la sostanza di una tradizione di bellezza che è stata destinata non solo alla nostra presente fruizione, ma anche a quella di chi in tempi futuri, non meno di noi, avrà il diritto di ammirare e la responsabilità di confrontarvisi. Nel numero 143 della Laudato si’ di papa Francesco si legge che «insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile… Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale. Perciò l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio». Da questa «cura», da questa premura credo fermamente debba lasciarsi ispirare ogni scelta a riguardo dei destini dell’area di Campo di Marte e della sua vocazione ricreativa e aggregativa, e sempre da entrambe, così come dalla lettera e dallo spirito dell’articolo 9 della nostra Costituzione, ci si augura sia ispirato l’imminente parere del Ministero dei Beni Culturali.

padre Bernardo

Firenze, 26 novembre 2020

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