Omelie

«Contro il disamore»: tre omelie del padre abate Bernardo per un triduo di feste fra memoria e speranza

1 novembre 2019 – Tutti i Santi

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

 

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

 

Omelia:

 

Fratelli e sorelle, la parola del Signore oggi risuona con queste ripetute prospettive di beatitudine che segnalano una modalità di lettura della realtà radicalmente inedita: mai agli occhi del mondo parrebbero beati i poveri di spirito, mai coloro che sono nel pianto, mai coloro che sono miti, mai coloro che sono affamati e assetati, mai coloro che sono misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, tanto meno i perseguitati per la giustizia, gli insultati perché testimoni del Signore Gesù.

Eppure attraverso la decifrazione della realtà che oggi ci offre il Signore Gesù, effettivamente queste esperienze che l’occhio, il giudizio il cuore frettoloso del mondo catalogherebbe  come degli sventurati senza speranza, appaiono invece latori di una beatitudine, di una prospettiva promettente che qualifica non solo il loro futuro ma già anche qualcosa del loro presente, ed è interessante notare come il Signore viva questa esperienza di insegnamento a cerchi concentrici: ha vicino a sé la ristretta cerchia dei discepoli e intorno a loro, lo avete ascoltato, un più ampio raggio di folla venuto ad ascoltare colui i cui gesti di fatto già trasformavano in beati coloro che erano feriti dalla vita e dalla storia.

Ma è molto importante che queste beatitudini sono rivolte ai discepoli, pure incorniciati da una folla più ampia, e ci interessa molto questo dato essenziale, fratelli e sorelle, perché siamo anche noi raccolti intorno al Signore Gesù, intorno alla sua parola, presto intorno al suo altare da cui stiamo per ricevere il nutrimento di questa beatitudine se solo entriamo nella logica della beatitudine riconoscendoci finalmente non dei sazi, ma degli affamati e degli assetati, noi che siamo così vicino al Signore, siamo circondati pure da tanta folla che in realtà non accorre per ascoltare il Signore, e allora siamo noi fratelli e sorelle i discepoli chiamati ad incarnare con la loro vita queste beatitudini, per risvegliare nella folla che ci circonda distratta l’interesse per il Signore Gesù, per la sua parola di speranza, per la sua prospettiva pasquale, per la sua alta decifrazione del mistero della nostra condizione umana, perché mai ci dimentichiamo il sublime effato, cioè la sublime parola del Concilio Vaticano II di Gaudium et Spes che, raccogliendo il meglio della tradizione antica della Chiesa ci ricorda come Gesù svela non soltanto il mistero del Padre, ma anche svela l’uomo a sé stesso, cioè chi sia veramente l’uomo.

E la risposta di che cosa sia veramente l’uomo oggi ha una parola bellissima come risposta reale che è capace di ispirare anche i nostri gesti e la nostra vita per essere veramente discepoli delle beatitudini agli occhi della folla dei distratti, questa parola è la santità.

Potremmo dire che la vera qualificazione della condizione umana è la santità, anche se noi siamo ormai rassegnati a pensare che la santità sia uno stato esistenziale, ontologico, metafisico confinato in pochissime persone, in pochissime categorie riscontrabili sui bellissimi altari delle nostre chiese.

E nonostante l’insonne fatica della Chiesa che, da un capo all’altro della sua storia, cerca di proporci quello che di fatto è evidente agli occhi di Dio, ovviamente anzitutto e soprattutto alla sua volontà santificatrice, ma anche agli occhi di chi sa contemplare l’agire di Dio nella nostra storia, in realtà la chiamata alla santità è davvero universale e la storia della Chiesa accosta figure straordinarie che possono essere stati grandi vescovi, grandi monaci, grandi suore, grandi consacrati e nello stesso tempo però anche meravigliose figure di persone come voi chiamate a testimoniare le beatitudini del Vangelo nella secolarità, cioè nel mondo, in una condizione ordinaria della vita cristiana, perché di fatto ciò che è premessa fondamentale e nello stesso tempo efficace e feconda della Santità è questo dato essenziale che Giovanni riassume con grande chiarezza in una espressione “noi siamo, per amore, figli di Dio”.

E chi ha questa consapevolezza e la serba nel cuore come un’identità, un legame destinato a crescere e ad essere storia della nostra storia, non semplicemente un timbro anagrafico nei certificati battesimali delle nostre parrocchie, chi ha questa consapevolezza, ci insegna Giovanni, mediante la  speranza  si lascia assimilare  ai disegni di purificazione dell’amore di Dio, c’è cioè una dinamica, una cinetica  dello Spirito, fratelli e sorelle, che fa storia della santità anzitutto nei nostri cuori, se riusciamo finalmente con umiltà a riscoprirci un cantiere aperto dall’amore di Dio nella nostra storia, nella nostra interiorità, con grande passione, magari dicendo cose troppo banali, vi chiedo scusa, ma io mi scaldo sempre perché purtroppo noi deleghiamo l’architettura della nostra interiorità effettivamente ai professionisti dell’anima, che vanno rispettati, consultati,  se necessario ma, voi che vi cibate ogni Domenica del Corpo del Signore, voi che gustate ogni Domenica la sua parola, non dico che non avete bisogno dello psicologo, ma certamente avete tutta la luce spirituale sufficiente per perlustrare la bellezza di quelle architetture interiori  che sono la prima palestra dove il Signore conduce la vostra volontà, la vostra intelligenza, la vostra creatività, la vostra fantasia, perché tutto di voi partecipi della Santità di Dio, come un riflesso in cui questa figliolanza, lo ripeto, diventa un bellissimo cantiere di assimilazione.

Ovviamente c’è una premessa fondamentale che ci riporta, quando manca, al peccato dei peccati cioè non aver fede nell’agire dello Spirito Santo, ritenerci una realtà individualmente a sé stante, inerte, refrattaria, indisponibile all’agire del Signore, ma questo contraddice il nostro essere qui, fratelli e sorelle, noi siamo qui non per un precetto, siamo qui perché sentiamo la beatitudine dell’aver fame della giustizia di Dio, aver fame del suo corpo, del suo sangue, della sua vita divina nel mettere queste particelle di vita celeste nel nostro cuore, fratelli e sorelle, significa riconoscere tutto un potenziale bellissimo, certo, è ovvio, ferito, mortificato, deformato dal peccato e da quei calli di durezza che inevitabilmente  le nostre consuetudini, le nostre scorciatoie producono come indisponibilità a questo gioco alto che il Signore intende stabilire come alleanza pasquale nella nostra vita . Però in realtà acquisiamo, domenica dopo domenica una eccedenza di attenzione con cui in realtà sentire che ormai le maglie del peccato ci stanno strette, fratelli e sorelle, che questi Santi che la Chiesa ci propone ogni giorno in realtà, come ci farà cantare anche se magari in latino non sarà chiarissimo,  non sono soltanto dei modelli ma come dice con una espressione bellissima la liturgia, sono nostri amici, tendono la mano al nostro cammino, non è semplicemente un esempio sapienziale di quelli che per esempio costituiscono i medaglioni, le immagini i ritratti delle grandi gallerie, di biblioteche, accademie, dove sono raccolti i grandi maestri del passato, che possiamo o non possiamo imitare o condividere, i Santi in forza del mistero della comunione trinitaria porgono la mano alla nostra mano e diventano anche loro collaboratori dell’edificazione di questo corpo mistico della Chiesa che è una realtà viva, organica, affamata di grazia, affamata di verità, affamata di passione, per questo il Signore Gesù canta questi paradossi perché tali sono ma che per noi che intuiamo l’assoluto di Dio, paradossi smettono di essere, perché è evidente che ci sentiamo chiamati a qualcosa che sfonda le pareti della nostra ristretta storia, dei nostri piccoli interessi, delle nostre piccole stive e sentiamo che in effetti la mitezza che ci dona il Signore, la misericordia che ci dona il Signore, la giustizia che ci dona il Signore, la pace che ci dona il Signore, sono davvero le prospettiva alte con cui sentiamo edificarsi la vera dignità filiale che è il dono imprescindibile che è anche la nostra piena realtà, piena identità.

E allora in questa prospettiva qui fratelli e sorelle, i Santi e noi con loro se ci stiamo a questo gioco con grande umiltà, ma anche con grandissima fede, ecco che diventiamo tutti creature pasquali, che è la grande sfida pastorale del nostro tempo, io guardate, quando comincio a leggere tutte queste analisi sociologiche che anche i Vescovi fanno…sì è importante l’adattarsi, il pensare, l’aggiornamento ma la questione è sempre quella: ci crediamo alla Pasqua di Cristo? Sì o no? Questo è il quesito di fondo, se ci crediamo l’applicazione oggi di questo interrogativo cui rispondiamo affermativamente, non può che essere un’unica risposta, la santità, cioè affermare che tutto quello che il mondo ritiene impossibile, in forza di Cristo risorto e del suo Spirito, anzitutto dentro il mio cuore, diventa possibile, che non significa diventare maghi, non significa condizionare la storia, significa saperla leggere attraverso la griglia delle beatitudini che diventano parola di speranza, di consolazione, di attesa, di desiderio, di preparazione, di una storia che verrà e che ha già oggi i suoi fermenti nella misura in cui diamo spazio, diamo gioco, dentro e fuori di noi alle energie pasquali dello Spirito Santo.

Che in questo cantiere, fratelli e sorelle, come umili e appassionati amici e fratelli, si possa tutti insieme continuare a camminare sapendo di avere l’amicizia dei Santi in cielo, ma anche sapendo che questa nostra pur piccola fede, mi affaccio su domani, è in grado di trascinare nei nostri passi magari contorti, ma pur sempre passi verso il futuro di Dio anche i nostri defunti.

Ma che bellezza fratelli e sorelle!

Con la fede non c’è più distanza né di tempo né di spazio, abbracciati alla Santità anche noi pur poveri e piccoli trasciniamo verso il Signore i nostri morti in una memoria che già da stasera si fa speranza di luce pasquale. Amen!

 

2 novembre 2019 – Commemorazione dei defunti

 

Dal libro della Sapienza
Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio,
nessun tormento li toccherà.
Agli occhi degli stolti parve che morissero,
la loro fine fu ritenuta una sciagura,
la loro partenza da noi una rovina,
ma essi sono nella pace.
Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi,
la loro speranza resta piena d’immortalità.
In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici,
perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé;
li ha saggiati come oro nel crogiolo
e li ha graditi come l’offerta di un olocausto.
Nel giorno del loro giudizio risplenderanno,
come scintille nella stoppia correranno qua e là.
Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli
e il Signore regnerà per sempre su di loro.
Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità,
i fedeli nell’amore rimarranno presso di lui,
perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse:
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose.
Io sono l’Alfa e l’Omèga,
il Principio e la Fine.
A colui che ha sete
io darò gratuitamente da bere
alla fonte dell’acqua della vita.
Chi sarà vincitore erediterà questi beni;
io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio».

 

Omelia:

 

Fratelli e sorelle, le beatitudini di ieri per la solennità di Ognissanti sono le beatitudini di oggi per la memoria dei nostri defunti.

La grande consolante visione della Gerusalemme Celeste, dimora perenne dove la santità di Dio partecipata ai suoi amici eletti per la testimonianza della sua stessa santità, è la stessa consolante visione per oggi, commemorazione dei nostri defunti.

Ci deve interrogare questa radicale somiglianza che assimila, attraverso la stessa parola di Dio, la vicenda della nostra condizione umana così frettolosamente ritenuta costretta ad una ordinaria mediocrità, ed invece trasfigurata, trasposta in una prospettiva che ieri abbiamo celebrato nella luce piena e definitiva della santità.

In realtà una e una sola è la medesima vocazione per ciascun vivente in Cristo ed è proprio partecipare della gloria senza fine dell’amore di Dio, che si traduce nella storia come esperienza di santità, cioè di adesione numinosa al Vangelo di Cristo.

Vogliamo profittare stasera di quello che i nostri occhi hanno visto attraversando, molti di voi, la necropoli di San Miniato al Monte, lo abbiamo fatto in un appassionato, anche a tratti affaticante pellegrinaggio nella memoria, sofferta, dei nostri amati defunti, coloro che non sono più fisicamente presenti al nostro abbraccio, coloro che sbiadite fotografie, sciupate dal sole e dalle intemperie, ripropongono in uno sguardo ben difficilmente assimilabile a quello contemplato e amato in vita.

Tutti quei volti, ma direi soprattutto l’insieme innumerevole dei nomi, delle date, delle lapidi, delle tombe che fanno di ogni cimitero una sorta di cittadella del silenzio, stasera mi fanno tornare in mente quello sguardo che il Signore Gesù ha  su una generica folla e dentro la folla sta un cuore speciale, quella cerchia ristretta di discepoli ai quali il Signore intona e svela il mistico canto delle beatitudini, perché quel ristretto discepolato diventi, per tutta quella generica e indistinta folla, motore di conversione, ispirazione di speranza, fuoco di amore, luce di perseveranza, tenerezza di consolazione, grammatica inedita e inaudita con la quale il nostro presente si volge in un tempo necessariamente futuro perché partorito dalla speranza dell’amore trinitario, tutta una serie di passaggi ben precisi fratelli e sorelle, che il Signore, lo avete ascoltato bene il Vangelo: “Dissi a loro –cioè ai discepoli- i grandi contenuti delle beatitudini”.

E noi ci sentiamo stasera partecipi di questa consegna intima, preziosa e irrinunciabile che è l’amicizia del Signore Gesù offre ai nostri cuori, offre alla nostra intelligenza, come chiave interpretativa radicalmente nuova della storia, del tempo, della vita, anche di quella nostra fine che abbiamo così severamente osservato incisa su quelle lapidi che di fatto in realtà non possono, come non ci stanchiamo di dire in una logica pasquale, contenere il mistero dell’uomo e della donna, proprio perché il mistero dell’uomo e della donna sono svelati dai futuri delle beatitudini.

E dire futuro, e dirlo con la bocca, le labbra, il cuore del Signore Gesù significa dare credito ad una sostanza di futuro, cioè ad un tempo di qualità radicalmente nuovo, diverso, che in questo tempo non può riuscire a contenere e che non a caso ha come trasposizione immaginifica la grande visione con cui Giovanni vede non a caso un cielo nuovo e una terra nuova, non è una descrizione semplicemente paesaggistica, perché cambia strada, questa novità si inscrive in un tempo e in uno spazio di qualità diversa, integralmente cristica, cioè ricapitolata nella persona del Signore Gesù, a meno che non vogliamo pensare che il Signore Gesù sia un maestro del passato, un sapiente cui dobbiamo una certa qual devozione e non iniziamo a pensare Gesù Cristo davvero come uomo e Dio e quindi, ci insegna Paolo, capace di ricapitolare, riavvolgere, rigenerare, in un tessuto, in un ordito radicalmente nuovo tutto della creazione stessa.

Allora questa prospettiva capite fratelli e sorelle, ci permette di dire e di sentire una parola diversa sulla morte e lo dico senza presunzione senza indifferenza al pure imporntante dialogo interreligioso: nessuno se non Cristo risorto può dirci una parola di speranza sulla morte, solo il suo amore crocifisso rende possibile l’ingresso nella nostra storia di questo tempo nuovo e diverso, di questi spazi nuovi e diversi, e noi siamo resi intimamente partecipi di questa confidenza trinitaria, anche se siamo distratti, anche se omologhiamo l’esperienza cristiana ad una consolazione generica, peggio ancora ad una illusione e le riteniamo cose devozionali che ci dobbiamo scambiare come augurio illusorio per le feste di Natale e di Pasqua.

No, fratelli e sorelle, qui è in gioco una sapienza che il Signore consegna ai suoi e con cui si rilegge tutta l’epica della condizione umana: ci siamo tutti noi qui dentro, poveri e ricchi, miti e meno miti, affamati e sazi, messi a nudo dalle beatitudini, perché l’umanità è messa a nudo e riscoperta in questa vocazione autentica che inevitabilmente ci fa dire e ridire con Pascal che l’uomo supera infinitamente l’uomo,  e questo superarsi cessa di essere frustrazione se assimiliamo, come facciamo con l’Eucaristia, con l’ascolto della parola, se assimiliamo Gesù Cristo vita, via, verità, pregnanza di amore, fratelli e sorelle, pregnanza di amore!

Per questo il Signore Gesù ci sfama col suo corpo, capite la potenza inaudita di questa modalità di partecipare dal di dentro della fibra speranzosa che l’amore crocifisso offre, anzitutto ai nostri corpi, ai nostri organismi, che sono frutto di una sapienza creatrice di Dio che non si balocca con le nostre vite essendo amore, che non costruisce i nostri corpi come una sorta di trappola temporanea, come riteneva il pur nobile dualismo platonico pitagorico! No! Nel corpo c’è il sacramento di una unità cristica che celebriamo in ogni Eucaristia e che sottolinea l’aspetto inevitabilmente provvisorio della morte, fratelli e sorelle, noi che la chiamiamo definitiva.

Anche nel nostro gergo, fratelli e sorelle, anche noi clero, spesso cediamo ad una interpretazione così banale di questi misteri perché ci abita poco Cristo in tutta la sua forza eversiva, se riconosciamo che a Pasqua noi celebriamo davvero l’eversione dell’amore sulle leggi della natura.

E questa prospettiva oggi forse ci è più familiare e la grido, un po’ perché i nostri microfoni fanno un giorno sì e dieci no, ma ve la urlo soprattutto perché io vi vedo quando facciamo le processioni che giustamente avete gli occhi pieni di lacrime e come sarebbe possibile diversamente? Tutti noi siamo senza parole, smarriti, di fronte alla morte, di fronte alla sconfitta di quello che siamo, abbiamo i nostri genitori de “La stanza accanto”, abbiamo tutti coloro che arrivano qui senza perché, però la risposta fratelli e sorelle non è mia, la risposta ci viene dall’amore di Gesù Cristo, amore crocifisso, cioè amore che si lascia uccidere per far trionfare la vita, in questa logica di rigenerazione che solo l’amore creativo di Dio può donare a tutto ciò che esiste, natura compresa.

Bellissimo questo!

Cieli nuovi e terra nuova, il nostro non è e non sarà un paradiso metafisico, e chiudo anche con questa immagine fortissima cioè: “il mare non c’era più”.

Io che amo tantissimo il mare devo dire fatico a fare i conti con questa visione di San Giovanni, ma sapete perché il mare non c’era più? Perché gli ebrei non amano navigare, gli ebrei non sono i grandi fenici che si muovono da un capo all’altro del Mediterraneo per essere abili commercianti lasciando in dono dove approdavano il loro geniale alfabeto, no, gli ebrei sono pastori seminomadi, diffidano dell’elemento liquido e non a caso nella creazione una delle primissime cose che fa Dio è mettere all’asciutto questa creazione perché l’uomo ci possa camminare al sicuro. Pensateci. Allora se questo mare scompare è perché in un certo senso finalmente sono essiccate le immagini così, sono essiccate il mare di quelle lacrime che ho visto oggi pomeriggio al cimitero, che nel segreto delle nostre stanze, delle nostre camere da letto, delle nostre solitudini tante volte gettiamo perché ci sentiamo, fratelli e sorelle, perché negarlo, feriti se non uccisi, talvolta nel nostro orgoglio, nelle nostre aspettative, nelle nostre presunzioni, nelle nostre illusioni.

La morte inizia ad abitarci dentro fin dalla nascita, fratelli e sorelle, per questo schiudiamoci come veri figli all’amore paterno che Cristo dona e svela, perché il vento dello Spirito contenga e finalmente disidrati questo fiume di lacrime e ci restituisca questa dignità che ci fa essere già adesso creature pasquali, amati da un amore che in quanto creatore di ogni cosa non può che essere più forte della morte.

Ed è in questa prospettiva che riprendiamo il nostro cammino, grati alla liturgia della Chiesa per questo giorno in cui la memoria si trasfigura in speranza, quelle foto sbiadite in bianco e nero e quelle epigrafi spesso ormai rovinate dalle intemperie e dal tempo, lasciano lo spazio a cieli nuovi e a terra nuova, cioè a quella geografia che solo il Risorto può costruire con le sue mani per le piene e definitive aspettative più nobili e veraci del nostro stesso cuore. Amen!

 

3 novembre 2019 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

 

Dal libro della Sapienza
Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?
Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita.
Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano
e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,
perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.

 

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Omelia:

Doveva passare di là -ci avverte l’evangelista Luca- doveva passare di là il Signore Gesù, doveva passare di là Zaccheo, per un incrocio fortissimo, foriero di una radicale novità di vita per Zaccheo.

Ma prima ancora di contemplare assieme a voi la grazia di questo incontro e i suoi frutti, che l’evangelista Luca ha cura di collocare in un oggi, che determina un tempo presente di qualità assoluta, e che segnala un tempo perennemente disponibile per ciascuno di noi, mi piace insistere su questo dover passare, che apparentemente ci lascerebbe immaginare e ridire con quel solito fatalismo che talvolta alberga sulle nostre labbra, una sorta di doverosità statica, monumentale, costruita e progettata da un tempo immemore e lontanissimo, come l’attuazione geometrica di una volontà insondabile cui lo stesso Signore è quasi obbligato a attraversare.

Ma mi sembra che in questa prospettiva, fratelli e sorelle, perdiamo di vista la cosa più bella, questo incontro, segnato da un dover passare l’uno nella vita dell’altro, è il segnale di un appuntamento libero e liberante inscritto in una agenda, quella dell’amore, per la quale Dio stesso, come ci ha avvertito la bellissima prima lettura, il Libro della Sapienza, ci lascia sperimentare un tratto fondamentale con il quale Lui si fa riconoscere, cioè il suo amare incondizionato tutte le cose, le cose che esistono, proprio perché generate e fatte da un amore che le rende opera viva, azione compiuta, e nello stesso tempo perennemente feconda che porta con sé una dinamica di trasformazione che sta alla nostra intelligenza, alla nostra libertà, al nostro amore, accordare e accordarci per viverne tutta la fecondità trasformante, a meno che non vogliamo trasformare il nostro Dio in un inflessibile burattinaio che ci impone di fatto di muoverci come gli ingranaggi di un orologio caricato a molla da qualcosa che non potrà più essere qualificato come amore, ma come una sorta di volontà, ripeto, geometricamente espansiva di sé stessa in una potenza che ci travolge, non ci libera, ci condiziona, non ci salva.

E questo lo diciamo sempre memori di Sapienza che ci avverte come tutta la realtà, sia chiaro, per Dio vale quanto polvere sulla bilancia, ma questo non dispensa né destituisce la portata amorosa con la quale il Signore ama questa polvere che noi siamo, sbilanciandosi, lui sì, verso di essa, in una prospettiva che ci interroga, fratelli e sorelle, e ci dovrebbe destare mediante questa interrogazione in una curiosità, in una inquietudine, in una prospettiva che riconosciamo nei verbi e nell’agire di Zaccheo oggi: vedete in quest’uomo, pure lui polvere che vale ben poco, un uomo di piccola statura, un uomo che fa soldi coi soldi, in modo di fatto odioso al popolo per le evidenti ingiustizie e manomissioni, una persona si direbbe davvero disprezzabile e spregevole e tuttavia a un certo punto è acceso da una curiosità fondamentale, e si inquadra questa curiosità, reciproca perché anche nel Signore Gesù, come stiamo per vedere in questo dover passare di là, che a questo punto noi forse meglio comprendiamo, non è un dovere fatalistico, ma è suscitato dalla libertà dell’amore, dal sentirci fratelli e sorelle, mediante quella curiosità, portati nella vita da una forza motrice che non costringe ma libera, qualificando tutte le nostre percezioni. E questo lo sentiamo molto bello quasi, lasciatemi usare una espressione, intrigante, noi che siamo così tentati di squalificare il senso della nostra vita, in fondo Paolo rimprovera ai suoi interlocutori proprio questo, non fatevi mettere in subbuglio, si direbbe quasi in una sorta di rassegnazione, da coloro che vi annunciano chissà con quale autorità l’imminenza della fine di tutto.

Non è la buona vigilanza che pure tornerà a riecheggiare in questa Basilica nel tempo dell’Avvento che sì, ci ricorda la curva del tempo, il suo non essere eterno ed infinito, risvegliandoci ad una tensione che non è quello che qui giustamente Paolo rimprovera e cioè appunto un senso di disillusione, di rassegnazione, di squalificazione della realtà in quanto tale che riletto alla luce di Sapienza, proprio perché esiste ha un suo intrinseco valore, fratelli e sorelle, e questo lo dobbiamo riscoprire come esercizio, apprendistato di riconciliazione del nostro esserci con l’essere delle cose, non per fughe metafisiche, speculative, fini a se stesse, ma al contrario per restituirci a pieno corpo, a pieno titolo nell’avventura della vita, in un senso, lo ripeto, di attenzione e di disponibilità alla trasformazione che è esattamente quello che noi contempliamo nell’incontro di Gesù con Zaccheo, una trasformazione tra l’altro immediata, voi lo avete ascoltato, lui dice che dà tutto o meglio la metà ai poveri, quello che ha sottratto lo restituisce moltiplicato, Zaccheo non ha mai fatto nulla di tutto questo ma già lo annuncia facendolo, a dirvi come questa forza trasformante dell’amore inscritto nello sguardo amoroso con il quale Cristo ci racconta quella modalità creativa del Dio creatore, cioè appunto far le cose per amore, non per doverle fare, e quindi ogni cosa che esiste porta con sé una memoria, una traccia, un indizio di questo suo essere stata creata per amore, e quindi è alla ricerca della sua vera vocazione.

Gesù risveglia tutto questo in Zaccheo e gli altri non vedevano e non potevano vedere questo in Zaccheo, perché il loro fare, il nostro fare è solitamente un fare senza amore, senza questa prospettiva dinamizzante che solo l’amore nella sua libertà, anche nel suo rischio, genera e porta con sé come tratto di riconoscibilità.

Per questo con grande sapienza Luca ci dice che il verbo con il quale Gesù guarda Zaccheo è un verbo che segnala un movimento dello sguardo dal basso verso l’alto, eppure è di piccola statura, certo è su un albero Zaccheo, ma capite la pregnanza di questa direzione?

Gesù, guardando Zaccheo, effettivamente gli restituisce la sua e la nostra autentica vocazione, una verticalità di cui Zaccheo sente finalmente l’esigenza, il bisogno, sente che non può restare prigioniero del suo egoismo, del giudizio degli altri, sente che la sua vita deve sbloccarsi, ma questo alla luce della prima lettura, fratelli e sorelle, non è detto in una chiave esclusivamente psicologica, consolatoria o moralistica, certo le conseguenze sono anche evidentemente un benessere psicologico, anche un raddrizzamento di quegli antichi vizi di Zaccheo in virtù di generosità.

A me quello che preme farvi notare è la verità esistenziale, radicale sottesa a questi verbi del Signore Gesù che hanno come presupposto, credo sia chiaro, il disegno di alleanza inscindibile che Dio pone, e lo farà in modo straordinariamente definitivo dopo il diluvio universale che non a caso, vi ricordate, è una decreazione, una distruzione della realtà in quanto tale, ma nel Signore dopo il pentimento prevale il perdono e fa alleanza con tutto quello che ha creato, mai più diluvi che cancelleranno la realtà.

Quindi c’è un impegno da parte di Dio che mette in gioco la sua libertà amorosa e che arriva attraverso i percorsi della storia, delle nostre storie, fino a questo momento decisivo, Gesù e Zaccheo, essere guardato per essere perdonato, essere perdonato per essere salvato, ritrovato, sono verbi fortissimi fratelli e sorelle, non esclusivamente psicodinamici, ma verbi nei quali riconosciamo la nostra avventura e il senso del nostro esserci che come uomini e donne di fede dobbiamo inevitabilmente saper ancorare, in una lettura profonda, accorata della nostra vita, anzitutto del tempo che ci è dato, delle occasioni che ci sono date, come espressione di un amore che viene da lontano e che noi siamo peraltro chiamati a testimoniare, quella luce di santità che abbiamo non a caso celebrato ieri l’altro.

E tutto questo diventa un ritrovarsi, è bellissimo che effettivamente il Signore Gesù non annuncia nessuna conversione, non ordina nessun moto di pentimento a Zaccheo, lo faremmo noi col nostro moralismo, con le nostre pedagogie un po’ striscianti che sempre usano, non dirò il ricatto, ma la premura di aver immediatamente dei contrassegni che ci assicurino del tempo che noi perdiamo educando.

Il Signore Gesù non fa così! Anzi. Mette in gioco la residua dignità di questo uomo perché vuole essere ospitato da lui, capite che bellezza la prospettiva con la quale il Signore qualifica, verticalizza, io che sono il Signore Gesù vengo a chiederti di essere ospitato nel tuo niente, nel tuo peccato, nella tua storia contraddittoria, sentite allora la forza di quell’alleanza con la quale Dio a suo tempo aveva promesso mai più  diluvi in questa nostra storia.

Sentite che implicazione di responsabilità meravigliosa il Signore fa risuonare nei nostri cuori, lui cerca ospitalità nei nostri cuori.

Quale meraviglia, a pensarci bene, e tutto questo è la gioia di cui parla il Vangelo oggi, è l’oggi di cui parla il Vangelo in questa domenica, esattamente per quell’urgenza che vorrebbe scuotere ogni nostra rassegnazione, ogni nostro ripiegamento sul passato.

Ecco lo sguardo che si apre fratelli e sorelle, credo sia uno sguardo che ci doni, come mi auguro e ci auguriamo, nonostante tutte le fatiche, le inquietudini, tutti i grandi motivi che rendono questo nostro incedere nella storia estremamente difficoltoso e pieno di grandi nubi, però ecco c’è uno slancio che oggi il Vangelo ci dona, non mancate di lasciarvi intercettare da questo slancio di curiosità, di compimento della vostra vita, non sottraete il vostro sguardo allo sguardo del Signore Gesù, e più ancora, lasciatemi dire, cercate davvero quasi misticamente e quindi necessariamente attraverso una preghiera umile ma accorata, di ricevere da Dio, glielo chiediamo insieme, la grande sapienza con la quale connettere l’esserci, l’essere, all’amore, alla libertà, all’obbedienza ai disegni amorosi con i quali il Signore effettivamente cerca la nostra condizione umana per farla diventare oggi, nè ieri, ma nemmeno domani, quell’oggi tutto diverso da quello che mirabilmente una poetessa che amo molto, Mariangela Gualtieri, è costretta ad annotare nel suo taccuino esistenziale che vi offro come meditazione, per così dire antitetica, a tutta la grande passione che oggi il Vangelo accende per questo nostro oggi:

 

Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.

Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto.

Amen!

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia è di Mariangela Montanari ed è stata scattata il 2 novembre 2019 a San Miniato al Monte

 

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