Omelie

«Como una ola de fuerza y luz». Omelia del padre abate Bernardo per la XXIV Domenica del Tempo Ordinario

11 settembre 2022 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal libro dell’Èsodo
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Omelia:

Cari fratelli e sorelle, il figlio minore non è soltanto “qui”, come viene riferito al figlio maggiore cioè non ha riposizionato la sua esistenza in una sostanziale giusta posizione della sua vita in prossimità a quella del padre, c’è molto di più.

Il figlio minore è tornato verso il padre, questa è la ragione della festa che ovviamente né quel servo né il figlio maggiore riescono a motivare perché la loro analisi della realtà è un’analisi fondamentalmente statica, incapace di accorgersi di quella scossa inquieta e inquietante che fa di fatto della nostra creaturalità l’espressione della nostra immagine e somiglianza col Padre, ovvero quella forza liberante della nostra intelligenza, del nostro cuore, che pur riconoscendo le proprie radici, la propria storia, la propria anteriorità sente questo  obbligo a fare della propria vita un’esperienza radicalmente nuova, inedita, tutta riposta nelle proprie capacità, tutta assegnata al proprio discernimento, al proprio rischio, alla propria capacità di esaurirne fino all’estremo le potenzialità.

C’è qualcosa, come intuite molto bene, di grandioso in tutto questo, non possiamo cadere nella tentazione di moralizzare la vicenda parabolica che nei suoi tratti assurdi vuole proprio invitarci a cogliere l’eccedenza di significato che il Signore assegna di una vicenda che nella paradossalità, nella sua non ovvietà, deve risvegliare in tutti noi una capacità di riappropriarci di quella narrazione per cogliere la nostra esistenza, senza facili e sbrigativi giudizi esteriori.

Del resto a riprova di ciò Gesù dice: Chi di voi non farebbe come quel pastore che lascia le novantanove pecore per cercare la centesima?

Nessuno lo farebbe, noi ci rassegneremmo a quella centesima pecora persa, pur di mettere al sicuro le novantanove che invece non si sono smarrite e andate perse.

E d’altra parte in fondo chi di noi avrebbe dedicato tutto il tempo, tutta l’energia, tutto l’olio di quella lampada per trovare quell’unico modestissimo spicciolo perso?

Dunque in questa paradossalità noi siamo invitati ad un approccio di lettura tipicamente evangelico, tipicamente biblico, ovvero esistenziale,  perché questo interessa alla conoscenza che la fede inaugura nel nostro cuore, nella nostra intelligenza, nella nostra sensorialità, come ci ha suggerito Paolo, non una conoscenza teorica, non una conoscenza intellettuale, tanto meno, lo dico, senza voler suscitare sconcerto, una conoscenza morale: -si deve fare.

Perché non è questo il fine del Vangelo, il fine del Vangelo e dell’amore di Gesù Cristo, è l’esperienza liberante del sentirsi così amati al di là dei nostri poverissimi meriti, che questa intuizione ci apre al futuro e rende la nostra vita finalmente degna della fiducia del Padre celeste, come abbiamo ascoltato con le parole di Paolo.

Si tratta cioè di una rilettura della nostra vita in una dimensione dinamica, tutta diversa da quel “il tuo figlio è qui” perché al Signore non interessano le metafisiche, le ontologie, le strutture con le quali interpretare la realtà in una dimensione magari rassicurante, ma che di fatto la rende refrattaria a quella che torno a chiamare la scossa di amore che, attraverso una conoscenza generata dalla fede, radicata nello spirito, finalmente immette nelle nostre relazioni tutto quel turbinio rischioso, ovviamente rischioso, ma che finalmente ci rende degni di essere il segno, il simbolo, di quel Padre che ci ha creato, perché con la nostra intelligenza prendessimo a cuore questa nostra storia, quel giardino degli inizi e lo trasformassimo, lo coltivassimo, e avviassimo tutta una dinamica di relazione che, nonostante la presenza costante di quel divisore simboleggiato dal serpente che altro non è se non questa natura instabile del dato creato, ci riportasse sempre ad una comunione col Padre, vincendo la nostra tentazione di staticizzare il mistero della esistenza chiudendoci nei nostri perimetri, assolutizzando noi stessi: “dammi la parte che mi spetta”, questo dice il figlio minore prima di lasciare il padre, credendo che con quello che può portarsi dietro in termini materiali avrebbe avuto i mattoni per costruire la propria sussistenza, la propria certezza, la propria sicurezza, dentro le quali darsi alla presunta libertà che così da solo ha tutto il suo impulso esistenziale in una cosificazione della realtà e delle relazioni, di cui sono simbolo i suoi rapporti con le prostitute.

Anche qui, non è una lettura moralistica, cosa significa la prostituzione se non cosificare, materializzare, depersonificare un corpo perché sia oggetto finalizzato alla mia esaltazione? Quindi la prospettiva è per l’appunto una prospettiva che ci libera da questo miraggio di sopravvivenza, di chiusura e ci invita ad essere persone che coraggiosamente vanno verso l’altro, con tutti i rischi dell’altro, ma andarci come Adamo ed Eva, bene lo sanno i nostri amici neo sposi che saluto e accolgo, Irene e Francesco, ce lo siamo detti l’altro giorno, cioè tutta quella dimensione di reciprocità che attraverso la differenza fa dell’amore la grande sinfonia che propizia la complementarietà.

Per questo queste tre immagini, centesima pecora, la moneta ritrovata e il figlio che ritorna, hanno come esito il tratto comune di queste immagini che è quello che stiamo vivendo noi, anche se purtroppo spesso proprio per la nostra struttura statica, moralistica, con cui viviamo la scossa della liturgia, quello che stiamo vivendo ora non ci sembra una festa e invece lo è, è festa. Guardate che se non recuperiamo la dimensione cromatica, direi proprio così, della festa liturgica, noi ci ritroveremo sempre di meno a vivere quella che per noi è il ritrovarci insieme, il sentirci ammessi ad una visione del mistero che si rivela perché, attraverso il dono della fede, siamo stati ritenuti degni, come Paolo, di accedere a questa sovraconoscenza e questo ditemi voi se non scalda il cuore, non immette nella nostra domenica altrimenti poverissima tutta una dimensione di liberazione, di relazione, di festa, di ebbrezza, perché finalmente quelle categorie strutturanti e strutturali della nostra quotidianità simboleggiate da quel “il tuo figlio è qui”, che impoverimento, badate bene, che impoverimento!

Lo immettono invece in tutta questa dimensione che poi è la nostra vita, sentirsi amati ma dimenticarci di questo amore alle prime difficoltà, e dunque tradirlo e dunque perdersi e dunque smarrirsi e dunque annullarsi in quello che, posseduto dentro la cortina dei nostri mattoncini di sicurezza, diventa l’idolo col quale finalmente, facendo l’amore, sono qualcuno.

Anche questa espressione la dice lunga, fare l’amore, che povertà lessicale, espressiva, di questa nostra tendenza davvero ad esaurirci in ciò che possediamo.

La festa ci libera da tutta questa prospettiva, perché l’esperienza della gratuità, della condivisione che naturalmente lascia completamente estraneo quel figlio che è sempre stato oggettivamente, come il padre riconosce, davanti a lui, ma in realtà mai nella dimensione relazionale in forza della quale tutto è nostro e non più mio e dunque tuo.

Una prospettiva fratelli e sorelle, che ha un suo precedente storico anch’esso paradigmatico, rivelativo nella vicenda sapientemente scelta da chi ci ha redatto queste mirabili architetture di liturgia della parola che sono uno dei frutti più preziosi, sia detto perché alle volte ci dimentichiamo come è andata anche la storia della Chiesa, il Concilio Vaticano II, e la grande riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, cioè questa esperienza del vitello d’oro, come è difficile sentire l’amore nel farsi di una storia sofferta quando la sorgente di questo amore per rispettare la nostra libertà, per qualificare la nostra intelligenza, per scaldare i nostri cuori attraverso l’avventura della fiducia che presuppone la distanza nel tempo e nello spazio, questo Dio non si lascia vedere e non lasciandosi vedere, questa mia paura ha bisogno invece di toccare, costi quello che costi, possibilmente in una figura smaltata, dorata, nella quale magari vedo anche il riflesso attraverso la luce del mio stesso volto, rassicurandomi in questa esperienza così tragicamente alienante, perché tutta  la libertà fragile, inquieta del mio cuore si riduce e si esaurisce a questo manufatto dal suono sordo, dalla superficie smaltata e dalla sua capacità speculare in realtà distorcente, tutto il contrario del gioco di volti che il Signore Gesù propizia con la luce di cui Lui è sorgente e nello stesso tempo riverbero.

Una prospettiva fratelli e sorelle, di fronte alla quale Mosè non può che presentare la consapevolezza fragile, creaturale, di sé stesso e del suo popolo, e quale altra risorsa ha Mosè? Bellissimo, questo è uno dei momenti più alti di tutta la rivelazione biblica, mica gli dice: guarda che siamo stati tutto sommato bravi ad arrivare dove siamo arrivati, guarda che tutto sommato qualcosa di te abbiamo capito, Mosè, e questa è una delle punte più geniali della rivelazione biblica, uno di quei momenti in cui uno veramente può domandarsi, ma se qualcuno ha scritto una genialata simile vuol dire che davvero qualcosa di vero c’è, cosa gli dice? Ma tu hai fatto una promessa. Sei obbligato alla promessa che hai fatto, caro Signore. Tutto quello che hai promesso ad Abramo lo vorresti forse smentire a noi che pure siamo nemmeno di coccio, di latta, come quel vitello dorato, ed ecco allora che il Signore –e qui davvero c’è un versetto super paradossale- si pente, Lui si pente del male che voleva fare al suo popolo. Non so se notate quale asimmetria, quale sbilanciamento, in confronto a questo anche quello di Paolo quasi cede, perché Paolo la sua conversione effettivamente l’ha avuta, qui Mosè la ributta tutta nel cuore della parola promettente del nostro Dio.

Ecco perché vi raccomando sempre di magnificare il Signore con uno dei suoi titoli più belli, anche se paradossalmente meno adoperati, meno presenti nel nostro lessico spirituale, il nostro Dio è credibile perché è un Dio che ha promesso, si è messo in gioco Lui per primo, senza alcun perché, come si fa nelle promesse nello spazio e nel tempo, ed è questo articolo di fede, fratelli e sorelle, ad obbligarci ad una qualificazione della lettura della nostra realtà, questo è il passaggio più difficile perché naturalmente anche se uno cerca di mostrare tutte le venature, le marezzature di una vicenda che tutt’altro che “il tuo figlio è qui” “il tuo fratello è qui” è invece una vicenda complessa, contraddittoria, di smarrimento, di fallimento, ma anche di ritorni, effettivamente ascoltando tutto questo noi siamo tentati di pensare, va bene ma questo è quello che si legge in un libro antico, Padre Bernardo ce lo potrà ridire scaldandoci un po’ l’umore con i suoi urli, poi alla fine uscendo di qui, ci ritroviamo a vicende storiche, temporali, di tutt’altra natura e invece no. Non mi stanco mai di dirvi fratelli e sorelle che la liturgia ha questa dimensione simbolica, generatrice di un’onda di amore, di verità, di intelligenza, che non si esaurisce con le tre porte di San Miniato, non si esaurisce con il canto Ite Missa est, ma come ogni energia modulare prosegue, magari su frequenze per cui non la percepiamo più nel suo dato materiale, sonoro, visivo, ma continua, non può non continuare, perché noi contempliamo una epifania di amore promettente, fedele a sé stesso e che dunque continua ad accompagnarci, deve accompagnarci, di fatto ci accompagna, siamo noi che dobbiamo sviluppare, con la fede, le antenne percettive di questa pregnanza simbolica che ci servirà cinque minuti dopo per leggere i giornali, per chi ancora si prende del tempo per informarsi davvero di quello che accade nel mondo, e cercare di interpretare questa matassa della storia nella quale noi tutti siamo immersi senza però dimenticarci, attraverso il dono della fede, che, anche se apparentemente radicalmente smentiti, questa realtà viene dall’amore, si lascia leggere e decifrare  soltanto dall’amore, acquisisce il suo significato e la sua pregnanza se si risolve nell’amore, un amore che noi impariamo a riconoscere attraverso quella specialissima lente che sono le fessure del corpo del Signore Gesù nella sua croce, non abbiamo altro punto di vista di questo amore sponsale e crocifisso con il quale sentire attraverso l’urto del suo dolore quanto siamo preziosi all’amore del Padre, anche se ci allontaniamo, anche se ci distanziamo, il suo appello pasquale è permanente come ragione di speranza, di misericordia, di intuizione, di illuminazione e finalmente di liberazione.

Che questa onda di luminosa forza, anche attraverso la tenerezza, il perdono, la sapienza, il sapore della vostra parola, dei vostri silenzi, dei vostri gesti, inondi questa nostra città, le città del mondo e propizi itinerari di ritorno con cui domenica prossima essere in tanti, non banalmente qui, ma in una incessante dinamica e cinetica di amore che è la ragione, il metodo e l’orizzonte del nostro essere finalmente festa insieme. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini
La foto ritrae una installazione luminosa di Dan Flavin (1933-1996)
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