Omelie

«Come inchiostro il sangue, come offerta la vita». Omelia del padre abate Bernardo per l’oblazione benedettina secolare di Adriana, Anna Maria, Ginevra, Serena, Serenella e Stefano nella Solennità di San Miniato Protomartire

Oblazione benedettina secolare di Adriana, Anna Maria, Ginevra, Serena, Serenella e Stefano per l’Abbazia di San Miniato al Monte

25 ottobre 2019

Solennità di San Miniato Protomartire

 

Fratelli e sorelle  in Cristo che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?

La misericordia di Dio e l’unione fraterna come Oblato della Comunità dell’Abbazia di San Miniato al Monte

 

Fratelli e sorelle, la solennità di San Miniato ci invita ogni anno a meditare insieme sul senso profondo del martirio, di quella testimonianza radicale di Cristo che ha per singolare attestazione l’inchiostro del sangue con il quale il martire è disponibile a sancire tutta la sua esistenza come un quinto, sesto, settimo, ottavo Vangelo nel quale la vicenda del Signore Gesù torna a risplendere nella penombra tormentata della nostra storia.

Di fatto per il martire tornano perfettamente queste parole che abbiamo ascoltato dalla lettera agli Ebrei “avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere derubati delle vostre sostanze sapendo di possedere beni migliori e duraturi”.

Il martire trasfigura questi versetti, sperimentando l’insopprimibile desiderio nel proprio cuore di evasione da quella storia che si è percepita e si è patita come un carcere, dove cioè è soppressa quella libertà del cuore, del pensiero e della coscienza che di fatto presiedono ad ogni vero e autentico atto credente, quando l’atto credente è mortificato in uno di questi aspetti, che in realtà comunemente sono soppressi e mortificati tutti insieme, ecco che per il cuore del martire è radicalmente preferibile l’evasione, anche se questo comporta dover riconoscere che il suo stesso corpo è diventato una prigione, ma non per un nostalgico dualismo di impronta platonica, quanto per una radicale e integrale cristificazione della propria esistenza, che arriva ad includere esattamente il corpo, soprattutto se martoriato e sfigurato, partecipe misteriosamente e per grazia dell’evento pasquale del Signore Gesù. Sono dunque i corpi dei martiri, non solo la reliquia che quando è possibile, come in questa Basilica da mille anni, sono venerati, ma è il corpo stesso del martire nella sua frammentazione, distorsione, sfigurazione, a riproporci l’assunto pasquale mirabilmente siglato dalla formula di straordinaria forza retorica di Sant’Agostino il martire come il Cristo subisce la deformitas per vivere la Dei-formitas, cioè la forma divina che all’uomo non è data che secondo la forma stessa del Signore Gesù, il Figlio di Dio, il più bello fra i figli dell’uomo, per l’appunto il prediletto del Padre sul quale scende ogni grazia, ogni unzione, ogni splendore dello Spirito Santo, come ha annunciato sul monte Tabor, consumato sul monte del Calvario, adempiuto nella notte pasquale.

Per cui vale per il Signore Gesù, e vale per il martire, l’affermazione mirabile con la quale si è concluso il brano di Apocalisse che ci è stato proposto dalla liturgia “chi sarà vincitore erediterà questi beni, io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio”. Un’adozione che il martire vive in una prospettiva di radicale speranza che gli pone in assoluto dispregio la sopravvivenza, intuendo che la morte per lui è autentica evasione che ha come risultato la libertà filiale. Questa prospettiva nell’immagine dell’Apocalisse ha l’esperienza umanissima della sete e dell’essere dissetati da una sorgente che non sfugge alla nostra rilettura complessiva di questo mistero liturgico che San Miniato ci propone molti secoli dopo, non può che essere l’acqua che sgorga dal costato dal Signore Gesù e non di meno il suo sangue di cui ci nutriamo in ogni celebrazione eucaristica, una prospettiva anche questa che qualifica non a caso tutta la potenzialità di divinizzazione del nostro corpo chiamato ad essere nutrito dall’amore del Signore, fino a diventare, per usare un linguaggio caro alla teologia orientale, in modo particolare a Nicola Cabàsilas, “fiala vivente del sangue di Cristo”.

Io non so se ci rendiamo conto abbastanza della pregnanza, delle implicazioni, dei frutti che comporta prendere sul serio questo dono immenso che Cristo fa di sé stessa alla nostra vita, una consapevolezza che ha come insopprimibile anteriorità la provvidenziale riscoperta di essere degli assetati, fratelli e sorelle; ma chi è disposto oggi a riconoscersi assetato di qualcosa che sfondi quelle pareti che noi illusoriamente riteniamo le pareti che garantiscono, in una cieca e miope individualità, quella vera libertà che il martire ci ricorda raggiungibile attraverso la paradossale evasione dal proprio corpo se necessario, quando cioè questo nostro corpo è imprigionato da una storia che costringe, fino a uccidere la libertà del nostro cuore e della nostra coscienza. Ma questo passaggio fratelli e sorelle, questa evasione in realtà è una potenziale testimonianza per ciascuno di noi anche se, per grazia e per provvidenza, nessuno di noi almeno ordinariamente, immediatamente è chiamato al martirio cruento e tuttavia è doveroso ricordarci che quando ascoltiamo la parola del Signore, quando ci nutriamo del corpo e sangue del Signore, se non sussiste in noi questa prospettiva forte di evasione, di trasfigurazione, di cristificazione, noi impoveriamo la grazia che ci viene data, la mortifichiamo, la costringiamo secondo prospettive che di fatto il martire oggi ci ricorda in tutta la sua assoluta portata di grazia e di mistero, lui, il martire credibilissimo, perché lei sue non sono come le mie, parole scritte con l’inchiostro del respiro, le sue sono parole scritte con l’inchiostro del sangue cioè riproponendo l’amore crocifisso, l’amore attestato, consumato, fino alla fine dal Signore Gesù di cui il martire è assolutamente, in modo concreto e oggettivo, riverbero nella nostra storia.

Fratelli e sorelle, oggi in mezzo ci sono sei persone alle quali sono particolarmente rivolte queste parole, perché l’orizzonte di una figliolanza generata da una libertà che non teme di evadere dalle costrizioni della storia, quando questa mortifica la nostra dignità creaturale, devono essere per loro chiarissime come parole che suonano a quella ci ostiniamo a riconoscere una vera e propria vocazione nella vocazione battesimale, cioè la chiamata da parte del Signore ad essere oblati benedettini secolari che è una espressione un po’ insolita, non comune nell’essere ecclesiale, ma che per noi monaci e monache di San Benedetto è espressione assai importante, ci dice questa potenzialità, direi davvero di missionarietà del monastero e dell’abbazia, la possibilità di includere nel patrimonio di spiritualità e prima ancora di mistero che le mura del monastero custodiscono, alcuni fratelli e alcune sorelle che il Signore ha chiamato a vivere nella ordinaria condizione del secolo, cioè del mondo, ma intrisi di questa spiritualità da loro, come auspichiamo, sempre più ardentemente desiderata, cercata, studiata, meditata, approfondita, possono diventare di fatto capaci di contagiare, per così dire, questa nostra storia così presuntuosamente convinta di essere sazia e dissetata, contagiarli di una ritrovata sete dello Spirito, contagiarli di una ritrovata e provvidenziale sete di verità, di veracità, di autenticità e quindi riorientare, anzitutto nel loro cuore, e poi nel tracciato di vita   di tutti coloro che incontrano, un’esistenza che ritorna a quelle sorgenti di cui ci ha parlato il libro dell’Apocalisse, una sorgente che è un tutt’uno con la riscoperta, davvero dissetante, di sentirci chiamati da Dio suoi propri figli, se riconosciamo che il vero orizzonte, la vera meta della vita in Cristo, altro non è che un incessante apprendistato di una figliolanza sempre più umilmente consapevole di quel privilegio che comporta riconoscere, pregare, confidare in Dio non più estraneo, non più lontano, ma finalmente in Cristo, Padre.

Questa è la grande avventura che si fa storia, concretezza, peccato, perdono, misericordia, possibilmente santità attraverso l’attuazione di quel codice meraviglioso di sapienza umana e divina che è la Regola di San Benedetto, la quale deve introdurre sempre di più le vostre vite in quell’apparente carcere che è il monastero, quell’esperienza di clausura, di raccoglimento che l’occhio, l’orecchio e il cuore del mondo mai potrà fino in fondo capire, se non accetta di rileggere l’esperienza del monachesimo attraverso la lente con la quale oggi noi, in Miniato, non vediamo un folle o un esaltato, ma al contrario un altro Cristo che ha scelto di fare della sua vita il paradosso pasquale e così senza l’eroismo di Miniato, salvo l’eccezione di grandi santi che ci hanno preceduto, anche in questa comunità, pure il monaco, se non avesse questa chiave di lettura pasquale, inevitabilmente finirebbe per vivere le pareti del proprio monastero come un carcere che leva l’aria, che toglie il respiro, che accorcia la vista, che rallenta il cuore e invece no, fratelli e sorelle, la Pasqua del Signore Gesù, in modo particolare fratelli e sorelle quel verbo giovanneo che  è chiave nell’esperienza  benedettina: “rimanere”  presso di Lui, eccome se libera tutte le nostre facoltà, certo non in modo immediato, attraverso i lavori di un’officina esigente, fatta di umiltà, di obbedienza, di continua conversione, in una parola di cristificazione che ha però come esito davvero, fratelli e sorelle, la scoperta tipicamente medioevale che nel frammento c’è il tutto, nel microcosmo del monastero c’è l’intera creazione che il monaco abbraccia con un’intensità di liberazione, di contemplazione, di stupore, di gratitudine, che sono le parole con le quali noi proponiamo, anzitutto col silenzio, un modo nuovo per far far pace a Dio e all’umanità, all’eterno e alla storia, al finito e all’infinito, al cielo e alla terra, all’uso e all’abuso di questa nostra creazione.

Una prospettiva che vede l’esperienza monastica, non a caso tipicamente eccentrica come una potenziale cerniera che raccorda tutto quello che in questa storia, sempre più indifferente al mistero, inevitabilmente vive come dispersione diabolica di significati, sempre meno comprensibile e sempre meno disponibile a farsi mosaico che riflette il senso di una bellezza inscritta in questa nostra vita e in questa nostra realtà.

Per questo voi come oblati dovete essere uomini e donne del simbolo, uomini e donne simbolici, contro ogni diabolica frammentazione, dovete essere capaci, per certi versi anche più di noi monaci, di tenere insieme città di Dio e città degli uomini, storia ed eternità, silenzio e parola, lavoro e contemplazione, e queste raccomandazioni, fratelli e sorelle, vi dono con voce forte, perché queste parole vengono da questo patrimonio al quale siete qui ad abbeverarvi, queste parole sono la raccomandazione che segnala e segnali a ciascuno di voi che non siete qui per vostra scelta “non voi avete scelto me -lo avete ascoltato- ma io ho scelto voi” dice il Signore. Queste sono parole che noi monaci dovremmo ricordare giorno e notte, io per primo, ma anche per voi e in realtà per ogni battezzato, l’anteriorità nel tempo e nello spazio della scelta del Signore Gesù che strappa le nostre vite dalla percezione drammatica di non aver un senso, un significato, una prospettiva.

Contro questa nientificazione del mistero della vita potete opporre una diga di luce, un argine di grazia, una sponda di bellezza, scendendo nella città come oblati e oblate che anzitutto nel ricordo, portano al loro cuore la memoria di questa grazia di cui sono impregnate queste sante millenarie mura e le nostre povere preghiere, ma preziose perché suscitate dallo Spirito Santo. Scendendo in città portate tutto questo, come segni e seme che propizino una futura vendemmia dove davvero l’amore del Signore si fa ebbrezza e restituisce una misura nuova e alta alle fatiche di una vita senza più gusto di essere tale, una vita che, in Cristo, vogliamo che sia davvero sponsalità senza di fine di letizia, di gioia, di colore e di futuro. Amen!

Trascrizione a cura di Grazia Collini

Fotografia di Mariangela Montanari

 

 

 

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