Omelie

«Climax». Tre omelie pasquali fino all’Ascensione del padre abate Bernardo

15 Maggio 2022 – V domenica di Pasqua  (C)

Messa Vespertina

 

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, anzitutto l’invito a riconoscere un primo grande movimento, quello geografico, che caratterizza l’agire, il percorso, la missione del nostro essere Chiesa, del nostro essere partecipi del mistero di Cristo, della sua forza di risurrezione attraverso, direi una fragranza esistenziale, che attraversi e permei di sé le nostre persone, i nostri corpi anzitutto, attraverso i sensi, porosi, a questo respiro forte dello Spirito che visita l’abisso nei nostri cuori, che risveglia questa consapevolezza di infinito e di eccedenza che ci inabita, ci pervade, ci supera, arricchisce di significato la nostra fragile e vulnerabile  contingenza, imprimendole già qui ora in questa terra, un sigillo indelebile di grazia.

Con questa consapevolezza Luca ricostruisce questi primi movimenti della Chiesa che partono e si compiono, almeno per quanto oggi ascoltato in Atti degli Apostoli, in Antiochia, la città dove quegli apostoli avevano invocato e ricevuto la grazia necessaria per compiere quelle opere che intendono compiere, divenendo con la loro vita missione del Padre, annunzio del Figlio, segno dello Spirito Santo, muovendosi attraverso varie città, sconfinando rispetto all’antico Israele, chiamando a vita nuova la molteplicità, oggi si direbbe delle culture altre da Israele, perché tutti e tutte passassero attraverso la porta della fede, dove per porta della fede si intende davvero questo accesso, questo ingresso al cuore del mistero pasquale che avendo per protagonista l’umano e il divino non può che essere esperienza di universalità che nessuno di noi può confinare, perimetrare, maneggiare, manipolare, escludendo altri ed altre da questo respiro che scaturendo dal cuore del Padre celeste , non può che avvolgere come una nube di luce tutta la creazione, tutta la famiglia umana, nessuno escluso, chiamando la nostra consapevolezza ecclesiale, tradotto in un linguaggio più semplice, la nostra consapevolezza di battezzati e battezzate, quindi tutti noi, nessuno escluso, a questa circolarità che ci fa ritornare misteriosamente là dove è iniziato il nostro cammino di fede, in una esperienza che ci riporta ogni domenica, nell’Eucaristia domenicale in modo tutto speciale, alla sorgente, dove scaturì questo nostro propagarci, disperderci nelle vie della città che ha voi, per primi, singolari protagonisti di un appello universalmente  rivolto, attraverso la sintassi e la grammatica delle relazioni innervate dall’amore, perché nessuno si senta escluso da questo appello alla vita nuova, alla speranza nuova conferito dalla Pasqua del Signore Gesù all’universalità della famiglia umana.

Una esperienza che ci riporta alla sorgente non come eravamo partiti, è bellissimo che questo ritorno ad anello nel luogo dove tutto, potremmo dire, era iniziato, con il fuoco della grazia del Signore, non può trovarci identici a come eravamo, c’è attivo fratelli e sorelle, un principio di trasformazione che spesso dimentichiamo, che spesso sottovalutiamo, ritenendo che anche la nostra fede in realtà come    di fatto tutta la nostra struttura personale, sia sottoposta alla dittatura di un tempo che ci logora, ci invecchia, ci svilisce.

È quanto accade principalmente alla nostra struttura che affronta la realtà, subendo l’attrito della realtà, invecchiando con la realtà stessa, ma ci avverte Paolo che se è vero che l’uomo esteriore si va disfacendo di giorno in giorno quello interiore si rinnova per questa azione dello Spirito che noi proviamo ad intercettare esattamente in questo luogo che domenica dopo domenica ha il compimento della nostra settimana e la sorgente della nostra settimana. Io vi suggerisco fratelli e sorelle di ricalibrare, aggiornare per così dire, i vostri calendari a questo momento davvero zenitale della settimana e vi dono questo appello non per clericalismi nostalgici come se la Chiesa dovesse e potesse pretendere di avere una centralità culturale oggi assai difficile se non impossibile nella complessità interculturale in cui viviamo, ma perché noi abbiamo avuto questo dono, questo privilegio, questa elezione di una fede, non importa se fragile, incerta, per tanti versi discontinua, avvertiamo questo senso di un bisogno, di una necessità, che configura il momento domenicale della Eucaristia come un alfa e omega, un principio e un compimento, che inaugura questo periplo, questo percorso, questo peregrinare che ci conduce nelle diverse città che idealmente anche noi per lavoro, per professione, adesso si spera anche per svago, affrontiamo, che rende come ci avverte Luca, anzitutto una esperienza di movimento, di cammino, dunque di inquietudine e di ricerca. È una prospettiva questa che ci affascina, oggi in modo particolare evocando in questa liturgia il nostro Cosimo che ha perlustrato anche i fondali degli abissi immergendosi in un luogo ostile alla vita, che non a caso il Signore Gesù calpesta senza affondare, a significare questa forza della sua persona colma dello Spirito Santo che lo rende come tale inattaccabile dai flutti e dalle onde più forte degli abissi, in grado dunque di camminare sulle acque dominando il caos e la morte.

Noi fratelli e sorelle siamo qui perché abbiamo questa stessa intenzione, vogliamo, dobbiamo, desideriamo affrontare la realtà, compiere anche noi il periplo attraverso gli arcipelaghi e le isole  delle molteplicità dei luoghi, delle responsabilità, delle relazioni che dobbiamo affrontare e vogliamo affrontare.

Sentiamo fratelli e sorelle di avere bisogno della riscoperta ad un livello non solo psicologico, ma soprattutto spirituale di un momento fondativo della nostra consapevolezza umana, eccolo qui questo momento fondativo, l’Eucaristia, nella sua dimensione interpersonale, che fa di questo luogo un frammento dove si compendia l’armonia del cosmo intero, in uno spazio che è un microcosmo, che possiamo e dobbiamo perlustrare riconoscendoci in una scheggia che ci educa con la sua bellezza ad affrontare senza paura la totalità della realtà. Per questo è benedetto oltremodo il sacerdozio estetico degli artisti, saluto Michele, saluto il suo maestro, abbiate il coraggio, la fantasia, la capacità di restituirci attraverso la bellezza la possibilità di tornare ad abitare la realtà con questo forte senso, nello stesso tempo di mistero e di chiarezza, entrambi necessari per non essere ostaggi dell’oscurità ma neanche vittime di una presunzione che vorrebbe credere di aver capito tutto della realtà. Niente di tutto questo.

C’è un’eccedenza che ci invita, direbbe Montale nella sua splendida lirica scritta contemplando il Mar Ligure, le schegge del mare, il volo dei gabbiani, più in là, con il loro volo che crea una distanza che è anche un invito ad andare oltre fratelli e sorelle.

Il Signore Gesù  ci educa a questo spazio di ulteriorità, lo fa  annunciando questo suo congedo dai suoi discepoli, educandoli ad uno spazio vuoto, ad uno spazio di assenza, parole che risuonano a tutti coloro, penso ai familiari di Cosimo, che hanno dovuto fare prestissimo i conti col senso del vuoto, con l’assenza. E d’altra parte il Signore Gesù li prepara a questo vuoto dopo aver assicurato loro di una reciprocità fondamentale fratelli e sorelle, che adesso consegno alla vostra capacità immaginifica, come se tutti voi foste artisti, e lo siamo chiamati ad essere tutti degli artisti, che sanno tratteggiare con la fantasia dello Spirito, non una realtà parallela e virtuale, per questo bastano e avanzano i social, ma per riuscire a cogliere di questa realtà una filigrana essenziale che sveli questa struttura di amore che il Padre ha inscritto in essa.

E noi questa filigrana la riusciamo a cogliere se ci dotiamo di una sorta di straordinario cilindro di luce che oggi il Signore Gesù prima di educare i suoi all’orizzontalità di amore reciproco, evoca perché la loro capacità di amore sia ispirata, più ancora, costantemente nutrita, non soltanto modellata, ma addirittura ontologicamente cioè sostanzialmente connessa alla verticalità di amore fra il Padre e il Figlio, è il senso di quel complesso discorso che il Signore Gesù ha fatto all’inizio di questo breve ma intensissimo Vangelo, il Padre quasi glorifica sé stesso nel Figlio, il Figlio si comprende come lo spazio della glorificazione del Padre, non sono giochi di parole costruiti per confonderci come ci confonderemmo noi mettendo uno specchio davanti a un altro specchio, questa reciprocità significa la possibilità di cogliere intuitivamente ma anche sostanzialmente, che il Padre e il Figlio col loro amore generano uno spazio storico nel quale deve situarsi la nostra vita, nel quale la nostra vita trova una polarità di amore in cui è chiamata essa stessa a consumarsi, prima ancora ad accendersi di questo amore finalmente possibile se riorientiamo la nostra vita nella possibilità di comprendere finalmente, attraverso il dono della fede, l’unica qualità sostanziale e per noi veramente interessante di Dio, che è la sua qualità amorosa, la sua sostanza amorosa, altro non è Dio che amore, cioè energia di movimento, come tale ragione di reciprocità, ragione di comunione, ragione di correlazione.

Che utilità avrebbe per noi un Dio statico, chiuso in sé stesso, a ciò sono già giunti con grande sapienza concettuale i filosofi, ma noi non possiamo credere nella filosofia, non possiamo cioè gettare, consegnare la nostra esistenza, ad una sapienza soltanto intellettuale, il nostro appello perché l’umanità intera passi attraverso la porta della fede è un appello che rivolgiamo alla sapienza del cuore di tutti noi, dotti e indotti, poveri e ricchi, vicini e lontani, cioè una dimensione accorata della universalità che si comprende se si comprende che il magnete, per così dire, di questo movimento è davvero il magnete dell’amore di Dio. A questa verticalità orienta il Signore Gesù annunciando la sua scomparsa, perché tale scomparsa non sia fraintesa come abbandono da parte dei suoi e ricordiamoci che soprattutto nel Vangelo di Giovanni il grande appuntamento pasquale dato dal Signore Gesù ai suoi è intorno ad un sepolcro vuoto. Ancora una volta questo coraggio ad abitare l’abisso, ad abitare l’assenza, ad abitare il vuoto, a diventare così attenti percettori dell’imprevedibile e dell’imprevisto, questa è la grande chiave pasquale fratelli e sorelle che dobbiamo avvertire anzitutto noi e poi per certi versi saper risvegliare nel cuore delle persone che difficilmente credono perché la nostra è una mentalità ormai che senza certificazioni, garanzia e polizza difficilmente investe nella vita, tanto meno nell’amore.

Ecco la prospettiva di questa verticalità reciproca, di questa  cinetica   inarrestabile tra Padre e Figlio che in qualche misura attira le nostre vite e genera questo movimento orizzontale che ci rende riconoscibili come discepoli del Signore dove, come comprendete bene, l’amore a cui allude qui il Signore Gesù non è semplicemente il nostro volerci bene a seconda delle simpatie, delle empatie, tanto meno dei bisogni, delle necessità, dei calcoli, non è nemmeno l’esito, il frutto, di una perseveranza etica, morale in obbligo ad una doverosità dell’amore  reciproco come pure  giustamente ci avvezzano le grandi strutture filantropiche, etiche e morali.

Noi, vorrei dire, non possiamo non amarci se spalanchiamo l’occhio della fede a questo mistero, espresso in modo tutto tipico dal Vangelo di Giovanni dove conoscenza verità e amore, si assimilano a vicenda, interpellando, lo dicevo prima, i nostri sensi, la nostra intelligenza, il nostro cuore, appellandoli ad aprirsi alla ritrovata, e nello stesso tempo inattesa, visibilità del divino attraverso l’esperienza coesiva dell’amore perché avevano in fondo ragione, fratelli e sorelle, quei filosofi che ci avvertono che per istintività l’uomo è davvero lupo all’altro uomo e trasforma questo lupo in agnello solo attraverso percorsi educativi molto sofferti e difficili, se ci riesce.

Ma noi fratelli e sorelle abbiamo un altro percorso da compiere, che non può essere tutto risposto nei nostri sforzi, nelle nostre letture, nelle nostre competenze, certo ci sarà da educare la nostra anima, ma noi abbiamo questa grazia della fede che ha ispirato quel percorso ad anello che gli apostoli hanno compiuto, la grazia della fede che ci dispone a questa verticalità  di amore fra il Padre e il Figlio che risucchia, trascina le nostre vite, così come sono le nostre vite, senza merito, senza calcolo, senza misura, con le nostre povertà i nostri fallimenti, le nostre miserie, le nostre ferite, le nostre perdite, i nostri insuccessi, i nostri sensi di colpa, tutto quello che giorno dopo giorno cataloghiamo, per convincerci di non valere alcunchè in questa vita salvo poi dover ricorrere alla chimica e ad altre risorse per cercare di ritrovare qualche motivazione in più per la nostra vita, vincendo la tentazione dell’ autolesionismo, delle mille e mille forme di anoressie di altre culture sostanzialmente abortive con cui disinvestiamo dal futuro e dalla vita.

Ecco perché fratelli e sorelle, abbiamo bisogno davvero di ritrovarci intorno a questo cilindro di luce, invisibile e visibile allo stesso tempo, come epifania di un vuoto che finalmente, con l’aiuto di Cristo e del suo dinamismo pasquale proviamo ad affrontare, d’altra parte chi oggi ci invita come con coraggio fa la parola di Dio, a riconoscere che questo percorso sapienziale di fede, ce lo ha detto la parola di Atti degli Apostoli, è attraverso le tribolazioni della vita dove, badate bene nessuno, nessuno deve pensare che il Signore ci doni, ci carichi di tribolazione per un suo sadismo, è di per sé la via dell’amore ad avvalorarsi, a corroborarsi, assumendo la fatica della vita, il contrasto della vita, l’istintività dell’egoismo, la tentazione della chiusura, il fascino della disillusone.

Ora poi a Firenze alla pandemia e alla guerra si aggiunge anche questo dissesto geologico, il terremoto che simboleggia benissimo, ulteriormente a noi, questo senso di inquietudine e di instabilità, davvero fratelli e sorelle, apriamoci a Dio, a questa novità che Giovanni per noi tratteggia come la città bellissima, la Gerusalemme celeste che scende dall’alto e che ci dona colui che fa nuove tutte le cose.

E nonostante quello che la tradizione ci avverte e che attraversa di fatto tutta la nostra formazione scolastica, l’essere inevitabilmente e doverosamente scolari del nostro passato, finalmente oggi abbiamo anche una parola che ci dice mirabilmente che quello che di bello, di buono e di giusto possiamo fare e diventare, non è ispirazione del passato, ma visione del futuro che la parola offre alla nostra fantasia per dare un orientamento forte, generoso e coraggioso del nostro oggi al domani che il Dio promettente ha in serbo per noi. Amen.

 

Domenica 22 maggio 2022 – VI domenica di Pasqua ©

 

Messa Vespertina

 

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati».
Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.
Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.
Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio:
il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello
sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]:
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

Omelia:

 

Fratelli e sorelle sempre più profondamente ci lasciamo sospingere dallo Spirito Santo che ci raduna  per la celebrazione liturgica nel cuore di un mistero fatto di relazioni, che generano nello stesso tempo prossimità, quindi comunione, ma anche distanza, segno, traccia indizio, riscontro di una alterità in questo movimento.

In queste prospettive che sono davvero paragonabili ad un respiro, al respiro, lo spiritus, il pneuma, noi proviamo ad addentrarci di fatto con un solo fondamentale scopo, ovvero riscoprire l’amabilità del Figlio incarnato, del Cristo che parla consegnando sé stesso attraverso una parola che, una volta ascoltata, ha da essere custodita perché di fatto ce lo ha detto con grande chiarezza il Signore: “se uno mi ama più che osserverà, custodirà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

Direi che davvero il grande tema, soprattutto in questo nostro momento storico, sia una vera e propria rifondazione della amabilità del Signore Gesù, una rifondazione ben inteso culturale, non è che l’amabilità del Figlio sia variabile in rapporto alla nostra capacità o incapacità di amare il Figlio, è amabilità oggettivamente assoluta, ma resta vero e inquietante il fatto, fratelli e sorelle, che sfugge all’orizzonte percettivo, intellettuale e cordiale del nostro tempo, l’esperienza direi davvero incontrovertibile di un amore gratuito, aperto, incondizionato all’amore che il Padre riversa su ciascuno di noi attraverso il Figlio amato, il Figlio che diviene recipiente dell’amore del Padre perché l’intero popolo, stringendosi in comunione con Lui, diventi una cosa sola col Figlio e dunque col Padre, in un’esperienza di trasfigurazione della nostra esistenza, in un’esperienza di unzione della nostra esistenza, col dono cioè di uno Spirito che disegna sul popolo di Dio un perimetro di luce che ci renda riconoscibili davvero come il popolo della pace.

Ma non la pace di cui parla il mondo spesso per interessi, parzialità, la pace che assomiglia all’interruzione di una situazione bellica da armistizio, ma la pace che il Signore Gesù riversa sulle nostre vite, avendola lui stesso accolta dal Padre e che comunica alla sua Chiesa, al corpo ecclesiale che, attraverso il dono della fede, diventando una cosa sola col Signore Gesù brilla della stessa luce  che promana dal cuore del Figlio perché l’amato del Padre.

Ora queste espressioni fratelli e sorelle, sono particolarmente importanti perché attualizzano da un punto di vista, lo stiamo dicendo, culturale e sociale, un problema teologico, cui il Signore intende addestrare i suoi in questo momento particolarissimo della sua esistenza, intende cioè addestrarli all’esperienza del suo scomparire dal loro orizzonte sensoriale, del suo abbandonarsi attraverso la croce alla volontà del Padre sapendo che questo abbandono radicale glorificando il Padre, compie l’opera dell’amore e riporta il Signore Gesù nel cuore stesso del Padre.

Resta un vuoto con cui dovranno ben presto fare i conti i discepoli del Signore Gesù. Come attraversare questo vuoto? È la questione teologica posta in essere da questa profondissima pagina giovannea e che ha un riscontro per noi estremamente attuale cioè, come interpretare, come testimoniare, come attraversare il vuoto di amabilità cui è sottoposto l’amore del Signore Gesù, per questa forma di distrazione, dissipazione con cui il nostro presuntuoso e sazio occidente si ritiene dispensato da questa avventura implicata da questa tensione di fede con la quale interpretare il mistero della vita senza escludere niente, senza escludere l’invisibile, senza escludere l’amore, senza escludere la ricerca appassionata, insonne, incessante, cordiale di una filigrana che in controluce almeno restituisca a questo nostro esserci un suo significato pregnante, capace di offrire un senso, un riscontro, a questa nostra fatica umana, a questa nostra sofferenza umana.

Per questo fratelli e sorelle voglio sottolineare questo versetto bellissimo con il quale nel libro degli Atti si qualifica la vera competenza di coloro che sono inviati per risolvere la questione in oggetto nel primo concilio di Gerusalemme, si direbbe con un linguaggio così consueto nei programmi pastorali della Chiesa di oggi, il primo evento sinodale di cui si abbia testimonianza, con la questione notissima della necessità o meno di ricorrere ancora alla pratica della circoncisione che vede contrapposte importanti componenti della Chiesa apostolica degli inizi e voi avete ascoltato che è parso alla comunità ecclesiale la necessità di “scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo”.

Bellissima questa espressione “rischiare la propria vita”.

Ecco, fratelli e sorelle c’è nella nostra esperienza fede, c’è nella nostra esperienza di speranza e di amore la consapevolezza che vivere nel nome del Signore Gesù comporti un rischio? C’è questa disponibilità ad una esposizione forte della nostra vita perché le nostre presunte certezze, sicurezze, si lascino liberamente e consapevolmente vorrei dire davvero con forza, deformare dalla pressione dello Spirito, da tutto quello che, venendo dal Padre attraverso il Figlio, non può che essere di fatto un destrutturarsi delle nostre istintive forze di ricomposizione delle nostre spinte plurali e controverse, organiche e psicologiche, intorno al pur fragilissimo io intorno al quale si coagula la nostra autodifesa.

Noi dobbiamo riassumere con forza, anche in quell’orizzonte culturale e per quell’orizzonte culturale di cui parlavamo, la consapevolezza invece che è importantissimo che la vita cristiana riprenda con sé il gusto del rischio, l’esposizione al rischio, la fatica del rischio, la libertà del rischio, altrimenti il nostro cristianesimo diventa fratelli e sorelle, una sorta di capsula ideologica di credenze dentro la quale conficcare la nostra vita come se fosse un’ambra, dentro la quale la nostra esistenza può sigillarsi, porsi, in una dimensione di certezza, di sicurezza, di trasparenza traslucide, ma può essere questo ciò a cui il Signore intende avvezzare i suoi educandoli semmai al compimento del suo amore per loro attraverso il suo distanziarsi da loro. Recuperiamo così queste dinamiche trinitarie che certamente spaventano, logorano, ci chiedono questo sforzo costante che ci vede tutti alla ricerca di un baricentro che mai stabile sarà, può essere stabile e stabilizzante l’amore? E allora l’amabilità del Signore Gesù forse la possiamo recuperare anche attraverso categorie della nostra modernità o post modernità con cui possiamo e dobbiamo, illuminati dallo Spirito, non solo fare i conti in una dimensione banalmente difensiva, ma avventurarci, gettarci, è la sfida della storia che il Signore Gesù ha assunto senza mezzi termini ed è proprio questa architettura dinamica di presenza e di assenza, di  prossimità e di distanza, di attesa, di desiderio, di consapevolezza, di quanto sia straordinario il dono che il Signore ci fa, ma anche di quanto la nostra capacità di ritenere le cose sapute, per usare l’espressione dantesca, sia fragilissima se non c’è l’assistenza dello Spirito Santo che a sua volta si presenta come la persona che fa del suo vuoto la ricchezza,  avendo la ministerialità ancillare di essere colui che altro non deve fare se non ricordarci la parola del Figlio e la volontà del Padre, cioè il suo vuoto diventa il riverbero della parola del Figlio, come se accostando il nostro orecchio alla conca che il mare ci offre sulla spiaggia, e riascoltando il suo suono facciamo finalmente memoria di quell’infinito.

Come vedete tutto è estremamente lasciatemelo dire, fascinoso, avventuroso, rischioso, difficile, sofferto, ma anche bellissimo, ma anche finalmente bellissimo.

È un Dio estremamente esigente, inserendo le nostre esistenze in queste tensioni, in queste dinamiche che, badate bene, devono essere le dinamiche che si riflettono nel nostro essere corpo ecclesiale, a una lettura affrettata potrà sembrare una consapevolezza  più di autorità giuridica, gerarchica che altro, quando invece è esattamente la consapevolezza che questa tensione per cui gli apostoli hanno senza esitazione messo a rischio la loro esistenza, comporta la libertà, la franchezza, l’umiltà con cui possono serenamente dire, lo Spirito Santo è in noi, abbiamo deciso, lo Spirito Santo è in noi fratelli e sorelle, a dire cioè che non c’è distanza, non c’è alterità che fermi questa forza mnemonica dello Spirito Santo, per chi ha la disponibilità di sintonizzare il proprio cuore con quella voce, con quel canto, con quell’ apparente incomunicabile e per certi versi indecifrabile ronzio che finalmente però, attraverso lo sforzo di intellezione, di passione, di meditazione, mi farà ascoltare o riascoltare il logos, la parola

che si compendia nella persona del Figlio Gesù e dunque finalmente custodirla.

Capite bene la povertà di questa traduzione inadeguata, osservare la parola come se il Signore Gesù fosse questione che chiede una precettistica esecuzione formale di un’azione da osservare, da compiere. Svelando così ancora una volta la nostra incapacità di entrare nel profondo di una relazione che mette in gioco tutto di noi, spirito, anima e corpo che ci fa scoprire dentro di noi queste relazioni di presenza, assenza, distanza, fede, vorrei dire non-fede, luce, tenebra, coraggio, paura: è la nostra vita ed è lì che si fa strada questa dinamica trinitaria che se trova un passaggio domanda la nostra umile capacità di custodia.

E allora fratelli e sorelle è così che si arriva  a riconoscere il dono grande della pace che il Signore ci fa, che è una pace che evidentemente anzitutto attende, interroga, provoca, scuote, i nostri cuori che sono i principali campi di battaglia della nostra storia, di cui non parla nessun telegiornale ovviamente, perché è molto più semplice gridare pace per una guerra che succede dall’altra parte  del continente piuttosto che riconoscere le munizioni che sono dentro di noi e il Signore Gesù invece ci dona la pace che agisce dentro il nostro cuore svelandone da un lato questo istintivo coagularsi in sé stesso dall’altro dà la forza, accogliendo lo Spirito, di ricordare come  il Signore Gesù si è disarmato, come il Signore Gesù ha disarmato, come il Signore Gesù ha sollevato ed è questo il vento di pace che, attraverso la nostra pace, si diffonde nel mondo in una dinamica che è verticale e poi orizzontale.

E tutto questo ci permette, e concludo, questo stropicciarci gli occhi in uno stupore che tiene ancora insieme prossimità e distanza, la nostra città, il nostro essere cittadinanza che, abitata dalla memoria che lo Spirito Santo alimenta, ci fa essere finalmente come dovrebbero essere, e devono essere, tutti i cittadini, in modo particolare i politici, coloro cioè che hanno la responsabilità della nostra storia: dei visionari, dei sognatori, dei profeti, che hanno a disposizione questa bellissima pagina di Apocalisse, per dirci che l’orizzonte del loro agire politico e del nostro agire politico quotidiano professionale e civile animato dallo Spirito è la bellissima Gerusalemme celeste dove l’amabilità del Figlio ha questo tratto così profondamente agreste, semplice, che parla all’infante che è in noi: un agnello.

Ci può essere qualcosa di più amabile di un agnello? È quello il tempio che ci attende, non c’è altra struttura né architettonica né gerarchica se non un agnello, nella luce, nel cuore di una città dove le molteplicità della nostra individualità, diffidente l’una dell’altro, sarà finalmente capace di dire, in un unico alleluia, noi e lo Spirito Santo. Amen

 

Domenica 29 maggio 2022 – Ascensione

 

Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Omelia

 

Fratelli e sorelle tutto quello che per noi sa di separazione, di congedo e di addio è motivo di inquietudine, di sofferenza, di sgomento e oggi la liturgia, pur nel segno della festa, della gioia e della gloria, pone di fronte all’intelligenza della nostra fede un mistero di separazione , di alterità, un mistero che riposiziona l’assolutezza di Cristo nello spazio ove tale totalità può veramente stare e cioè l’infinito del cielo, più esattamente infinito del cielo ma anche l’assolutezza del Padre, colui che conosce i tempi, potremmo aggiungere, i segreti della storia, il senso stesso della storia, colui che della storia è l’origine, colui che ha generato il Figlio in una esperienza di totalità di amore e comunione e che dunque non può sopportare alcuna scissione fra loro.

Questa prospettiva di radicale unità nell’amore è la ragione per cui dobbiamo anche noi oggi vivere questa nostra separazione, divisione fra noi e Cristo, questo abbandono, vivere fratelli e sorelle, questo passaggio è inquietante soprattutto in un momento storico in cui, pur fra mille fatiche, stiamo riscoprendo tutto il gusto, la bellezza della presenzialità, dell’immediatezza, dopo tempi di quarantena di didattiche e relazioni a distanza e allora questa domenica può offrirci molto significato, molta ispirazione su come vivere l’esperienza della separazione.

Una separazione fratelli e sorelle che il Vangelo presenta da tempo attraverso la liturgia alla nostra intelligenza come un mistero che deve sollecitare la nostra capacità, si diceva confusamente all’inizio, di fiducia, di speranza, riscoprendo il tratto qualificante distintivo del nostro Signore, la sua dimensione promettente e oggi questa parola promessa torna più volte nella parola che ci è rivolta, una riscoperta quella di un Dio promettente che appare così l’unico modo per vivere nell’amore il mistero della separazione, della distanza, che diventano meno amare, meno sofferte se sappiamo che almeno uno dei due interlocutori che si separano è riconoscibile e distinguibile per la sua dimensione radicalmente promettente e fedele e questo è un tratto da riscoprire per familiarizzare, attraverso la fede, sempre di più e sempre meglio col nostro Signore, anzitutto con l’amore del Padre, oggi il Signore Gesù ce lo ricorda proprio nella sua dimensione che lo rende affidabile nella sua promessa di un battesimo nello Spirito Santo, cioè in quell’esperienza di amore che esonda dalla comunione di amore fra il Padre e il Figlio come se fosse una sorta di scintilla che si produce tanto intenso è l’amore reciproco del Padre e del Figlio, in una relazione che fa riconoscere ad Agostino nel Padre l’amante, nel Figlio l’amato e nello Spirito Santo l’amore, come meglio contempleremo e gusteremo nella Pentecoste ormai imminente.

Ma oggi è già importante ed essenziale cogliere il contenuto della promessa che il Padre ci dona attraverso Gesù perché è solo attraverso il dono dell’amore che noi ci riconosciamo raggiunti da un Dio promettente che fa dell’amore il contenuto della sua promessa, il suo investimento nei nostri riguardi, il suo debordare da sé stesso impegnandosi con una promessa, perché questo è l’aspetto bellissimo della promessa, non promette chi è nell’indifferenza, non promette chi si installa e si chiude nella lontananza, promette chi soffre la distanza nello spazio e nel tempo, promette chi ama, promette chi si coinvolge in modo radicale, pieno.

Allora lo Spirito Santo come amore è il contenuto di questa promessa mirabilmente coinvolgente fra Dio e noi. Come restare insensibili fratelli e sorelle?

Come restare indifferenti a questo investimento nel tempo e nello spazio che il Padre fa nei nostri riguardi con il Figlio Gesù incarnato nella nostra stessa dimensione corporea e lasciandoci lo Spirito Santo quando il Figlio ha da tornare al Padre, generando così una sorta di vuoto, di spazio, che è colmato e sarà colmato esattamente dallo Spirito Santo, da questa dimensione di amore invisibile ma reale che inaugura, propizia, mette in moto quelle dinamiche che nel vuoto fanno essere l’amore capace di diventare fede, speranza, apertura, promessa a sua volta, con la quale anche noi ci impegniamo a fare la nostra parte per colmare questa distanza.

Ed è bellissimo questo tratto della fede fratelli e sorelle, noi che stiamo drammaticamente perdendo per così dire, dal nostro orizzonte culturale il problema stesso dell’intelligibilità di Dio, soprattutto il nostro occidente non se lo pone più questo problema, il problema cioè nemmeno dell’esserci di Dio, più o meno, sì o no, ma di fatto se abbiamo la strumentazione e vorrei dire la necessità di porci il quesito della realtà stessa di Dio. In questo torpore dei sensi e del cuore il grande tema dell’amore diventa indifferenza e quindi il tema del Dio di Gesù Cristo diventa indifferenza.

Noi parlando di promessa sentiamo che invece proprio il coinvolgimento può risvegliare in noi la sensazione che a quel suo impegnarsi non possa non corrispondere in noi, quanto meno lo sforzo di uscire da noi stessi, lo sforzo di non escludere l’interpretazione della vita come un sipario che quando si apre davvero al nostro cuore, ai nostri sensi, rivela la tracce, gli indizi, certo discontinui, di una dimensione promettente di tutta la realtà.

Ed è una apertura per la quale abbiamo davvero bisogno dello Spirito e vedete, la cosa bellissima è che il Vangelo, prima di questo dono dello Spirito mostra i discepoli obbedire al comando del Signore Gesù, loro restano in città e in città guadagnano il tempio per glorificare il Signore.

Tutto il Vangelo di Luca è inscritto nella dimensione del tempio, da Zaccaria fino a questa pagina e nel tempio di Gerusalemme, ma noi siamo stati avvertiti dalla Lettera agli Ebrei fratelli e sorelle, che in ben altro tempio è entrato il Signore Gesù, il tempio è il santuario non costruito da mano d’uomo, è il cielo, solo il cielo può contenere l’infinito e la totalità di Cristo. E la Lettera agli Ebrei ci raccomanda e ci invita ad avvicinarci anche noi attraverso la mediazione, il velo, che è la carne di Gesù Cristo, in questo orizzonte, in questo santuario infinito.

Questo ci riporta ad un’altra dimensione parallela alla promessa ed è la dimensione sulla quale insisto spesso proprio perché vorrei scaldarvi, e forse anche per questo urlo e vi chiedo scusa, ma vorrei scaldarvi in ordine a questo problema culturale perché lo risvegliate nelle strade della città: il tema dell’eccedenza, il tempio di Gerusalemme non basta a contenere il mistero dell’amore trinitario e d’altra parte nemmeno il nostro corpo basta a contenere l’eccedenza del mistero che abita in noi, in questa dimensione con-corporea nella quale ha scelto di dimorare l’assoluto Gesù Cristo incarnandosi. Ecco perché anche noi abbiamo bisogno davvero di tornare a recuperare la dimensione del cielo come l’unico spazio in cui trova possibilità di dispiegarsi l’incontenibile di ciascuno di noi.

E vedete che queste prospettive, io credo, possano funzionare, il rammendo è molto grezzo e mal cucito per colpa mia, ma credo che comunque vi suggerisce tutto questo la possibilità di un possibile incontro, un possibile ritrovarsi fra Dio e  l’uomo, un tema questo che non può non scaldarci, noi che sentiamo la nostra vita impoverita, depauperata, fragilizzata, priva di pregnanza e fecondità di significato se la sottraiamo alla possibilità di dare ai nostri amori, alle nostre relazioni, alle nostre affezioni, ai nostri sogni, ai nostri desideri, non direi semplicemente uno statuto di dignità e continuità, ma molto di più, riconoscere in loro non un movimento destinato alla frustrazione, alla non evidenza, alla non compiutezza, sentiamo davvero che c’è qualcosa che non può non darci un appuntamento oltre tutto quello che noi siamo, vediamo e constatiamo, per questo abbiamo bisogno anche davvero di spalancare come hanno fatto i grandi architetti di ogni epoca, le chiese, alla forza dirompente della luce che le attraversa per educarci a questa sorta di provvisorietà rispetto agli orizzonti infiniti del santuario celeste del Regno e nello stesso tempo fratelli e sorelle dall’altro fondamentale punto di vista scoprire nella fragilità, nella vulnerabilità, nella debolezza umana il sacramento dove abita l’amore di Dio perché è lo stesso Gesù nella sua totalità a chiederci di riconoscerlo nella nudità, nella fame, nella sete, nella ferita, nell’erranza di tutti coloro che, bussando alla porta delle nostre presunte certezze, sperimentano questa dimensione di indigenza, di incompiutezza, di fragilità che si trasfigura soltanto con la gratuità dell’amore che, essendo vero amore, non può non riposizionare il nostro cuore dopo questa orizzontalità di servizio in una verticalità che apre al mistero stesso dell’amore credibile nella sua dimensione di ferita che è la ragione per cui, diversamente dagli altri sommi sacerdoti che ogni anno devono ferire qualche vitello per propiziarsi il Padre nel tempio vecchio, con il Signore Gesù questa cosa è conclusa una volta per sempre perché nello stesso tempo lui è, secondo la Lettera agli Ebrei il sacerdote, l’altare, la vittima, in una correlazione fortissima che si traduce in una sacramentalità della realtà in cui davvero la terra è la piattaforma su cui si eleva questo santuario infinito del cielo e tutto si lascia rileggere in una prospettiva che senza sacrificare il mistero dell’alterità conferisce ad ogni vivente, ad ogni esperienza della nostra storia, la possibilità di essere riletta e sperimentata in un aggancio oggettivo al mistero di quello che Agostino non a caso chiamava “il Cristo totale”.

Una espressione bellissima nella misura in cui riconsegniamo la percezione della nostra  esistenza, così esposta a dissipazioni e dispersioni di ogni genere, in quella totalità di amore, in quella prossimità al Padre che lo Spirito Santo ci fa desiderare perché è proprio dell’amore suscitare il desiderio di consumare l’amore senza che esso si esaurisca e quindi, come abbiamo pregato all’inizio di questa celebrazione, a riconoscere la nostra esistenza orientata al cielo, per riunirsi in modo pieno e definitivo a quel Cristo che lassù è già accanto al Padre, portando in quell’intimità la nostra carne, la nostra storia, e nello stesso tempo lasciando liberi noi di fare di questa distanza e di questo tempo, nell’orizzonte di una promessa credibile, il fermento, la fertilità, la fecondità di una storia che provi in ascolto del Signore, nell’esigenza della sua parola, in obbedienza  della sua volontà, l’espandersi, il dilatarsi di un Regno, ecco anche il tema dei confini da raggiungere per battezzare chiunque incontriamo in una dimensione che fa della marginalità, del frammento, dell’estraneità e della periferia l’epicentro di una storia nuova, come è tipico dell’amore.

L’amore o è inclusivo o non è amore. L’amore non resta mai fermo nella sua centralità statica, ma è sempre dinamismo, questo ci insegna il mistero dell’incarnazione, questo ci insegna il mistero pasquale, è davvero un Dio in fortissimo movimento e il Gesù di Giovanni ce lo dice con grande chiarezza: Io e il Padre lavoriamo sempre.

Ed è bellissimo fratelli e sorelle riscoprire la nostra esistenza realmente partecipe di questa febbrile operosità di amore del Padre e del Figlio, in cui il nostro carburante è lo Spirito, il nostro spazio di azione è la realtà tutta intera perché nella prospettiva dell’Ascensione, voi lo capite molto bene, e non è un caso l’avvertimento degli Angeli: cosa state a guardare in cielo imbambolati? Questo è il luogo dove il fermento celeste deve attecchire.

Ecco tutto questo fratelli e sorelle, mi sembra riapra, o  per lo meno questo è il mio grande desiderio, l’avervi instillato perdonatemi se la stanchezza e la confusione mentale non è riuscita, ma l’intento era riaccendere in noi la passione, la passione per l’intelligibilità di Dio, per riposizionare la nostra vicenda personale umana in un orizzonte finalmente sconfinato, basta essere prigionieri e ostaggio di presunte certezze che situano il confine solo e soltanto nell’incontrovertibile, verificabile solo attraverso una grezza sensorialità.

Ecco tutto questo ci apre e ci dona anche la consapevolezza di essere fin da ora abitanti del cielo e la consapevolezza che questa terra come lo è il nostro meraviglioso mosaico, qui con quello zodiaco che alla luce della porta aperta diventa davvero acqua e cielo nello stesso tempo, questa nostra terra è riflesso e deve essere riflesso dell’infinito cielo di Dio, così come il Cristo risorto col suo corpo accanto al Padre nella gloria dei cieli è il mirabile riflesso della nostra ancora fragile umanità nell’attesa di ricongiungersi pienamente con Lui all’adempimento di quella promessa che intanto è l’arcobaleno che ci guida di giorno e di notte nella via della storia. Amen.

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

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