Omelie

«C’è una parola per passare il segno?». Un inedito interrogativo di Mario Luzi con l’omelia di padre Bernardo per la II Domenica di Quaresima

Terzo millennio

Terzo millennio, la tua porta è ancora chiusa
c’è una parola per passare il segno?
un motto di malleveria sovrana?
C’è, non sai chi lo pronunzia
e nemmeno chi lo giudica, ma c’è.
La mente umana greve e insoddisfatta
lo desidera, dura, contro di sé:
sfrondare di frivolezza e vanità lo scibile,
portare in salvo l’essenziale opera
di bellezza e conoscenza,
alleggerire il carico
della presuntuosa fatuità…
Da questo purgatoriale rogo
uscirà l’uomo, spero, spoglio proteso
al meglio: al lavoro costruttivo
alla pace, alla fraternità.
Mario Luzi (20 ottobre 1914 – 28 febbraio 200)

 

28 febbraio 2021 – II Domenica di Quaresima

 

Dal libro della Gènesi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?
Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 

Omelia:

“Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!” –proclama Paolo chiudendo la bocca di tutti coloro che potrebbero muovere accuse contro coloro che Dio ha scelto. Chi mai potrebbe condannarli? Vi è fratelli e sorelle una sorta di tardiva esplicazione di quello che può essere l’angosciante dubbio dei tre testimoni della trasfigurazione del Signore Gesù, cosa mai volesse dire risorgere dai morti. La risposta ce la offre Paolo da una prospettiva profondamente umana, la prospettiva che sentiamo scendere nel nostro cuore, nei nostri pensieri, sulla nostra pelle come un balsamo che penetra in profondità attraverso le nostre ferite e rende anche il nostro corpo partecipabile di una luminosità oltremodo necessaria nella penombra che stiamo attraversando.

Sì, il Signore Gesù è morto ed è proprio perché è morto è risorto e la sua risurrezione lo pone in una dimensione di radicale prossimità con colui che l’ha inviato, il Padre, verso il quale egli ritorna guidato dalla bussola della sua parola, della sua volontà, in una esperienza di adesione a questo attraverso il sentiero tortuoso, anzi direi, il deserto della libertà che il Signore Gesù assume e vive fino in fondo non facendola diventare però uno sforzo titanico, solipsistico, che lo rende quasi un eroe mitico leggendario, inavvicinabile e inarrivabile a disposizione di qualche nostro slancio eroico con il quale liberiamo la nostra fantasia che si dispone ad ascoltare e riascoltare antichi racconti della paganità per alimentare almeno nel sogno la possibilità di uscire da questa realtà altrimenti angusta e stringente. Non è così. Il Signore Gesù intercede per noi davanti al Padre, alla sua destra, e fratelli e sorelle questo aspetto dell’intercessione del Signore Gesù ci è oltremodo prezioso, significa –non ci stanchiamo di dirlo- come tutta l’economia della morte e della risurrezione del Signore Gesù abbia come conseguenza il nostro vantaggio, la nostra libertà, la nostra condizione creaturale, i nostri sforzi, le nostre attese, le nostre frustrazioni, i nostri errori, i nostri fallimenti, tutto in Cristo è prossimo al Padre in un respiro orante del Figlio, in una intercessione incessante che spezza, annulla la distanza altrimenti invalicabile che si porrebbe se l’evento pasquale fosse stato conseguito dal Signore Gesù per un suo ed esclusivo vantaggio, come la conquista di una montagna attraverso la quale il Cristo porta sé stesso davanti alla solitudine del Padre e tutto restasse come in una economia di reciproca illuminazione che esclude la nostra condizione umana, quasi se ne dimentica, la lascia in una sua insuperabile prigionia.

Non è così fratelli e sorelle, e vorrei che oggi fosse particolarmente percepibile nella nostra comunità liturgia, nel nostro essere insieme a vivere il mistero che si consegna attraverso i gesti della liturgia, le parole della liturgia, i silenzi della liturgia, il gusto, il profumo, la luce della liturgia, come questo nostro essere qui –lo abbiamo cantato all’inizio- significhi vivere realmente e profeticamente allo stesso tempo, l’accesso a questo mistero di presenza, a questo respiro del Figlio che attraverso l’intercessione, sprofonda nel respiro del Padre e lo fa includendo il nostro soffio, il nostro spirito, portandolo per l’appunto con sé, così come ha portato con sé i due discepoli, resi partecipi di uno sforzo, di una prova che il Signore Gesù affronta, tutta la sua vita è una prova e un grandioso sforzo ma è in una economia relazionale trinitaria e in forza del suo essere carne della nostra carne, inclusiva della nostra condizione umana.

Per questo fratelli e sorelle, il nostro approccio non è soltanto la struggente nostalgia con la quale ci incantano i personaggi omerici o della grande tradizione classica, fosse anche Ulisse, uomo come noi, c’è qualcosa di più, c’è una reale partecipazione che si attua nella nostra vita attraverso l’iniziativa altrettanto libera del Padre celeste, mediante la forza della sua elezione, la scelta che Dio fa di non essere solo ma di aprirsi a comunione attraverso qualcuno e qualcosa da amare, già amare è una scelta per Dio, fratelli e sorelle, un amore che venendo dal suo cuore dove è rinchiusa tutta la potenza dell’essere, la potenzialità del non essere, non può che essere amore creativo, inclusivo. Per questo le cose esistono e in mezzo alle cose che esistono c’è anche l’esistenza della nostra, pur fragile ma dignitosa, libertà. E’ lì che insiste la scelta di Dio.

É lì che si configura fratelli e sorelle, la possibilità di essere resi partecipi della prova del Signore Gesù, questo è l’aspetto quaresimale che per così dire, giustifica l’inserzione del foglio dell’antica parola di Dio che ci racconta della trasfigurazione in un momento in cui in realtà tutto sa di cenere, tutto sa di austerità, tutto sa di deserto, di duna, tutto sa di depressione, per così dire, nella valle in cui siamo invitati da un percorso di radicale discesa, umiliazione, cui la Quaresima ci invita fratelli e sorelle –lo abbiamo detto altre volte- non per una penitenza fine a sé stessa ma per questo decostruirsi delle nostre presunte certezze sulle quali soffi il vento dello Spirito che insuffli l’energia luminosa del fuoco creativo di Dio e tuttavia oggi ecco questa inserzione, certo giustamente la Chiesa e la sua tradizione sottolinea questa dimensione consolatoria in forza della quale nel paesaggio depressivo del deserto il monte Tabor appare come una meta che apre uno sguardo già pasquale a questo nostro cammino, però attenzione, non è semplicemente una consolazione che il Signore dà quasi a tradimento, svelandoci solo gradualmente che dietro il Tabor esiste il monte del Calvario. Vorrei fratelli e sorelle che oggi questa luce avesse per noi comunque il senso della prova, del peirasmos, detto in greco che si traduce molto parzialmente quale tentazione. E’ anche la luce con la quale comprendere la prima sconcertante prova che si incontra nella Santa Scrittura e in questa liturgia, la prova cui è sottoposto Abramo, dove regna molto silenzio, come notano i più profondi commentatori, un silenzio che avvolge di mistero e di inconoscibilità i protagonisti di questa vicenda, fino a svelarci anche un paradosso in forza del quale l’onnisciente Dio ha bisogno di vedere cosa fa Abramo prima di poter dire: -adesso io so che tu mi ami.

Questo fratelli e sorelle per dirci come questo racconto susciti in noi, attraverso la forza eloquente del silenzio, un senso di profondissima empatia, partecipazione, simpatia nei riguardi di Abramo nel quale sta la vita di ciascuno di noi, perché tutto è donato da Dio e tutto è come misteriosamente sottratto dalla nostra forza, dalle nostre mani, dalle nostre certezze, dalle nostre considerazioni, dalle nostre previsioni, e allora la grande domanda è: ma Dio esiste o non esiste? Che affidabilità ha questo Dio se tutto è sottoposto alla prova della non-definitività? Io credo che ci ritroviamo tutti in questa dimensione con Abramo, certo in modo tutto particolare ce n’è qualcuno in mezzo a noi, che ha perso un figlio, che se lo è visto sottrarre magari con l’esperienza di avergli donato, come talvolta può drammaticamente accadere, gli stessi strumenti che si sono trasformati in forza disgregante.

Allora fratelli e sorelle, ritorniamo al tema della prova, della vita come prova, della vita come tentazione.

È difficile che ci venga offerta questa interpretazione della vita in un mondo che tende ad attutire gli spigoli, in una cultura che tende ad edulcorare, a sfumare, in una cultura -lasciatemelo dire- che fa quasi sembrare un successo –esco un attimo dal seminato- l’idea che nei giardini pubblici noi siamo accompagnati dalla nube del wi-fi, non è una battuta, una discesa nella facile polemica politica fratelli e sorelle, è interessante pensare quale sia la nostra percezione della nube, cloud in inglese, me lo insegnate. La nube è l’esperienza della connettività oggi, della certezza di un riscontro, di una informazione, di una plausibilità di quello che sono, pubblico, mostro di me, degli altri, una correlazione fortissima perché virtuale. Altra è la nube, la prova, la connessione che la parola di Dio oggi offre, fratelli e sorelle, che non ci invita in un giardino dove, in una presunta solitudine prefabbricata da un’urbanistica accessoria a questa cultura edulcorante, è invece, avete ascoltato l’insistenza di Marco, è salire su un monte, in disparte, nella solitudine.

Chi vi parla oggi e chi vi invita a queste esperienze brucianti del nostro cuore?

La liturgia oggi lo fa. Prendiamola sul serio fratelli e sorelle, cioè non usciamo dallo spazio della solitudine, dello stare in disparte, del disporci ad una nudità ed un limite essenziale per riscoprire la vita come limite, come prova, come tentazione. Se noi scansiamo sistematicamente tutto questo e lo pensiamo come l’eventualità della sventura e della disgrazia dalla quale mi proteggo in ogni modo, con la nube della connettività, noi fratelli e sorelle, siamo costretti a dare della vita una interpretazione, oltre che falsa, estremamente limitante.

Invece oggi nella sua nuda austerità la parola ci costringe ad uscire da questa nube consolatoria e limitante per affrontare il taglio del limite, è così che però matura la nostra fede pasquale, è così che riscopriamo come, fidandoci della prova che il Signore Gesù affronta per noi e con noi, fidandoci delle sue orme anche se conducono a Gerusalemme, noi questa vita la possiamo abbracciare in tutta la sua totalità, non avremo più bisogno, per così dire, della nostalgia struggente dell’eroe nel quale in realtà in modo illusorio è proiettato.

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

Si deve alla fraterna generosità di Paolo Andrea Mettel la possibilità di accedere ai versi di Mario Luzi, sino ad ora inediti

 

 

 

 

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