Omelie

«C’è altro, c’è oltre». Omelia del padre abate Bernardo per la V Domenica di Quaresima

3 aprile 2022 – V Domenica di Quaresima

 

Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore,
che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

 

Omelia:

Fratelli e sorelle avvertiamo la consapevolezza che ci ricorda con grande lucidità il Profeta Isaia di una estinzione, consunzione anche dei protagonisti dell’antica vicenda pasquale, convocati dallo Spirito, dalla nube di luce che conduce Israele verso l’esperienza della libertà, della gloria, di una autoconsapevolezza di scelta da parte del Signore per un popolo nuovo, destinato ad essere annuncio vivente di una comunione della storia, con un mistero che non resta chiuso in sé stesso, inviolato e inviolabile nella sua alterità, ma sfrange per così dire i suoi insindacabili perimetri per farsi partecipazione alla nostra sofferenza, al nostro limite, al nostro fallimento.

Un recupero importante, lucido, severo, quello di Isaia, che pone di fronte alla sua gente, a ciascuno di noi, l’oggettività di una realtà, quella umana, quella nostra storica, così esposta al fallimento. Vogliamo fare nostre queste parole, sono parole che possiamo rileggere alla luce delle vicende belliche che segnalano, con tutta la forza simbolica e reale che talvolta le cronache dei nostri giorni hanno, sollevando per così dire la nostra consapevole distrazione con la quale viviamo assuefatti, e vogliamo essere assuefatti, allo svolgimento dei fatti, eludendo i loro interrogativi, il loro peso, la loro chiamata alla responsabilità. Almeno questo la vicenda ucraina non ci permette di fare, chiede davvero una interpretazione forte che non può che partire da questa considerazione: “Essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo. Sono estinti”.

Questa è la verità tremenda, oscura, della nostra condizione umana esposta alla morte, al male, e vorrei che in questo tempo di passione che in modo tutto speciale inizia proprio con questa Domenica per condurci poi alla Settimana Santa e vivere così con grande intensità la centralità che ha il mistero di un Dio fatto uomo, che assume tutto di noi, soprattutto il nostro limite, il nostro male, la nostra ferita, la nostra morte, questo intreccio di sofferenza di un popolo estinto e dell’uomo Dio che assume la nostra estensione ci può servire, ci deve servire, come chiave interpretativa che ispiri il nostro agire in questo presente, preparando, interpretando tutto nel segno dell’amore del Padre celeste, un futuro diverso, “proprio ora, non ve ne accorgete?” continua a dirci Isaia: io faccio una cosa nuova, essa germoglia, aprendo nel deserto una strada, immettendo i fiumi nella steppa, convocando tutti gli animali, anche i più selvatici, alla glorificazione della sua gloria, della sua presenza.

Ecco mi sembra molto importante, fratelli e sorelle, questo nostro sguardo che si dà appuntamento con la realtà sofferta del nostro presente, lo fa con un gesto che è disponibile a domandarsi dove sia andato il Padre promettente che è disponibile a far scorrere fiumi nel deserto, a far germogliare vita nuova nella steppa, a convocare tutta la realtà organica, ivi compresa quella animale, in quell’esercizio di riconoscimento della sua presenza che induce al canto, induce alla festa, induce alla liberazione da ogni nostra paura, traducendo tutto quello che noi viviamo nella dimensione della gratuità, della celebrazione, della festa.

Ecco noi, fratelli e sorelle, siamo chiamati ad essere il segno di Cristo in questa storia così difficile, una responsabilità immane che non voglio tacere perché non si pensi che il Vangelo che abbiamo ascoltato, la parola di Paolo che è stata proclamata, questo affresco a tinte forti di Isaia, non siano per così dire cornici letterarie funzionali a scaldare il nostro cuore, a darci una qualche consolazione che possa lì per lì darci un qualche senso, in questo momento così difficile, ma un senso epidermico, destinato a spengersi, ad affievolirsi, non appena riascoltiamo le notizie del telegiornale, non appena ritorniamo nelle problematiche della nostra quotidianità, dall’inflazione che sale a ben altre afflizioni che possono ferire il nostro cuore, minacciare la nostra serenità e la nostra tranquillità.

Allora abbiamo bisogno, fratelli e sorelle, di una immersione ancora più forte nel mistero che stiamo celebrando, approfittare della liturgia, non mi stanco di dirlo, non solo come ovviamente un precetto che ci obbliga ad una presenza, ma nemmeno come una temperatura che sale, facendo alzare così la nostra emotività, abbiamo bisogno di vivere profondamente la parola paolina che mai come oggi ci serve per riconoscere la centralità di questo passaggio esistenziale, storico, corporeo, nel mistero di Cristo: avete ascoltato come la sua parola segni un discrimine severissimo, sconcertante, che pure non vogliamo eludere, tutto è spazzatura, arriva a dirci Paolo, rispetto a quella che per lui diventa la chiave di accesso alla verità profonda di sé stesso anzitutto, e del suo senso della vita e dell’esistenza in rapporto, da un lato all’esperienza del limite, dall’altro alla possibilità di superare questo limite, ancorando tutto di sé ad una prospettiva alta e duratura, pregna di significato della propria esistenza e della storia intera che ospita la sua e la nostra esistenza.

Ecco io credo, fratelli e sorelle, che la difficoltà del tempo presente da un lato, lo sconvolgimento di una guerra così prepotente, così prossima, così eloquente, nel dirci la dissoluzione anche del mito europeo di una convivenza pacifica dei popoli, perché questo rappresenta la guerra in Ucraina in aggiunta a tutte le altre guerre generalmente dimenticate, la fine cioè del mito di una pace stabile dopo la seconda guerra mondiale, che la crisi balcanica degli anni ’90 aveva già certamente compromesso, ma non così drammaticamente come questo conflitto di fatto fra occidente e oriente. E d’altra parte fratelli e sorelle, accanto alla verifica ineludibile della perdita di spessore dell’incidenza della Chiesa nella consapevolezza e nella elaborazione di una consapevolezza dell’uomo e della donna del nostro tempo, impone a noi che siamo qui, una rinnovata presa diretta con il Signore Gesù, col suo mistero, col suo esserci. Vorrei dirvi che se eludiamo, per così dire, la sfida a diventare discepoli attivi di una cristologia permanente, come banco di prova della nostra fede, come laboratorio che raffina e orienta la nostra speranza, come parametro dentro il quale si prova il crogiolo, la qualità del nostro amore, tutta la sapienza che pure ci viene data attraverso il mistero liturgico, la nostra adesione alla Chiesa, corrono il rischio di diventare insignificanza che si riduce ad un ambito esclusivamente psicologico, ad una esperienza che si limita ad una consolazione temporanea e contingente, non restando nelle nostre mani e nel nostro pensiero come criterio valutativo della realtà e del presente. Ed è questa la grande sfida fratelli e sorelle che dobbiamo assumere con una ostinazione che non esito a definire anche intellettuale e non certo perché penso ad una Chiesa accademica, per pochi eletti, ad un salotto in cui ritrovarci pensando tutti la stessa cosa, lungi da me questa prospettiva squalificante del mistero, autenticamente popolare, che la rivelazione d’amore di Dio concede a piene mani a chiunque, ma quello che veramente sento imprescindibile fratelli e sorelle è questa nostra disponibilità tutta paolina, lasciateci sottoporre nel corpo, nell’anima, nello spirito, a cosa porti con sé il mistero del Dio fatto uomo, anzitutto questo inguaribile disorientamento che assumiamo come criterio, disorientamento ineludibile, per certi versi sconcertante e fascinosissimo, dell’incarnazione del Signore Gesù e il criterio che Lui ci lascia per lasciarsi riconoscere non è una dottrina, non è nemmeno il perimetro certo del confine ecclesiale dentro il quale sentirci al sicuro, al contrario: ero pellegrino e mi avete accolto, ero affamato e mi avete sfamato, ero assetato e mi avete dissetato.

In altre parole il Signore Gesù, il Dio fatto uomo continua a camminare nella nostra storia e si lascia riconoscere esattamente in quelle dimensioni che noi abitualmente scansiamo, il limite, la ferita, l’indigenza, il vuoto.

Quindi il primo grande effetto di questo laboratorio cristologico necessario per essere tutti insieme il segno nel mondo che lo Spirito Santo continua a donare pregnanza, fecondità, alla sua Chiesa in rapporto all’esigenza umanissima di verità, di amore e di speranza, è questa nostra capacità di lasciarsi disorientare alla ricerca dell’uomo Dio che attraversa la nostra storia nel segno del limite, della fragilità, della vulnerabilità.

L’altro effetto fratelli e sorelle, è quello non accessorio ma conseguente di non poterci permettere di perdere speranza nella dignità dell’umano, un’altra grandissima sfida a cui ci sottopone da un lato la storia presente, questa esperienza macroscopica di follia con cui si fa guerra a spese dei piccoli e degli innocenti e di coloro che per obbedienza ad una divisa devono andare in prima linea a uccidere e a farsi uccidere, perché questa è la follia della guerra.

E allora la tentazione in questo contesto di perdere considerazione nella nostra dignità umana è altissima, ma non possiamo dimenticarci fratelli e sorelle questa regola aurea dell’incarnazione che riassume in modo esemplare Sant’Ireneo: “Il Figlio, il visibile del Padre. Il Padre l’invisibile del Figlio”, così Ireneo. Quattro parole fratelli e sorelle che costruiscono una intelaiatura stabile e dinamica allo stesso tempo che ci obbliga a sconfinare, ad eccedere, ad andare oltre quel vulnerabile che noi accogliamo davvero come il sacramento dell’amore di un Dio che si spossessa di sé pur di essere comunione con la mia, nostra, umanità e che nello stesso tempo però ci chiede di attraversare questo vuoto, questa ferita alla ricerca della sorgente da cui scaturisce quest’amore vivificante, appunto il Figlio che è il visibile del Padre. Bellissima questa dimensione per cui siamo costantemente, lo ripeto, disorientati, sia nella direzione orizzontale, la ricerca cioè di questo divino che cammina nelle molteplici direzioni di una umanità ferita, sia nella direzione verticale di risalita imprescindibile se vogliamo ritrovare una sorta di vertice in tutta questa nostra storia così labirintica, una sorta di sorgente, di scaturigine, che segnali un senso comune da rifondare insieme, si parla e giustamente, di esigenza di un bene comune, eccome, ma prima ancora forse fratelli e sorelle, l’antica questione filosofica di un senso comune è in agenda per cogliere che esiste un dato unificante in questa pur controversa vicenda umana e questo dato comune, questa scaturigine, questo punto di orientamento e di riferimento, questo laboratorio cristologico ci invita a scorgerlo questa sorgente che è il Padre, che si manifesta attraverso il Figlio e che tuttavia non si esaurisce nel Figlio lasciando che attraverso di Lui questo suo amore disarmante, umiliante e glorificante allo stesso tempo, ci faccia intuire che c’è dell’altro, c’è dell’oltre da risalire attraverso questo passaggio di cordata che la fede, anche nella sua dimensione ecclesiale, apre, direi a pochi eletti, pionieri che non si rassegnano e che siamo noi, non perché migliori sia chiaro, ma perché ci ostiniamo in questa dimensione interrogante della realtà, non ci rassegniamo a quella prospettiva che di fatto chiude l’antica esperienza del primo esodo nella constatazione che quella porzione di popolo di Israele non si è distinta dagli ucraini: giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti. Dove è andata a finire la Pasqua del Signore Gesù? Questo è l’interrogativo credo da porsi prima di andare incontro ad una nuova Pasqua.

E il Signore appunto ci pungola con queste domande, è il suo metodo: nessuno ti ha condannata, nessuno! Cioè il Signore Gesù davvero, fratelli e sorelle trasforma quel tribunale improvvisato, una esperienza in cui ognuno di noi, cominciando dai più anziani, è obbligato da questa forza dinamica dell’amore che rilancia in tutte le direzioni possibili, orizzontali e verticali a risalire dentro di noi, a trovare e ritrovare semmai c’è stata una trama unificante, una scaturigine delle nostre azioni e a volerla cogliere attraverso la forza disarmante del perdono e della misericordia, non dentro di noi e nemmeno dentro la nostra buona coscienza, tanto meno dentro le nostre griglie morali, meno ancora nelle strutture estrinseche della legislazione, fosse quella mosaica, c’è un oltre, che è l’amore del Padre, la misericordia liberante del Padre.

Lì Gesù dà appuntamento, a sé stesso, sulla croce, a quella donna, a coloro che l’accusano, cogliete no questa dimensione verticalizzante attraverso questi duplici movimenti del Signore Gesù che per Giovanni, voi lo sapete benissimo, non sono mai casuali, sono il segno che Lui per primo si muove anche Lui alla ricerca di un orientamento, prima se ne sta da solo in preghiera, poi scende nel tempio, poi si china a scrivere, poi si rialza, poi di nuovo si richina a scrivere, così è il Signore Gesù. Noi abbiamo l’idea alle volte davvero di una cristologia statica, di una esperienza di un Cristo, lì, pigi il pulsante e appare, si accende, si illumina, ma questa è una prospettiva fratelli e sorelle incompatibile con quella dinamica, per l’appunto trinitaria, di amore che viene consegnato, affidato al Figlio, che da lui viene restituito al Padre e dal Padre attraverso il Figlio, nell’economia dello Spirito, è diffusa rifrazione come spore in questa nostra realtà e noi torno a dirlo, ostinati, per la fede e la speranza che il Signore tiene accese nei nostri cuori dobbiamo essere capaci di intercettare quelle spore, quelle traiettorie, non tenercele tutte per noi come consolazione appagante di una spiritualità intimistica, esclusivamente cordiale o esclusivamente intellettuale, dobbiamo essere insieme il corpo di Cristo, disponibile ce lo ha detto Paolo, a patire le sue sofferenze, a vedere conformata la nostra morte nella sua morte e cioè a vivere tutte le dinamiche dei nostri limiti, delle nostre vulnerabilità perché siano frattura, scissura, cretto, dentro il quale trova spazio l’amore del Padre se ci fidiamo, torniamo a fidarci di un Padre che non resta impassibile di fronte al vuoto che con umiltà gli mostriamo, o addirittura nemmeno gli mostriamo, perché quell’adultera nulla gli mostra, e tuttavia è radicalmente visitata dalla misericordia che il Signore Gesù le dona e per entrambi e per tutti noi, così e solo così io credo si apra quel futuro che ci interessa sommamente: va e non peccare più,.

Va, liberati anche da me, cioè nessun discepolato con quella donna, è un avvertimento meraviglioso, il Gesù di Giovanni non costringe nessuno, nemmeno nella pur nobile logica della gratitudine e della riconoscenza che ti obblighi a restare con me alla scuola del mio magistero e Paolo va oltre, proteso verso il futuro, dimentico di me.

Quindi sono immagini che con la novità prospettata da Isaia, aprono uno scenario, possiamo dirlo, universale, di novità, di imprevisto.

Ecco, questa possibilità mi sembra sia un tutt’uno col disorientamento a cui il Vangelo, la liturgia deve sottoporci fratelli e sorelle.

Io vi ringrazio che vi sottoponete al mio disorientamento, ma d’altra parte credo che nel coro di una città così distratta, le città così distratte, non è un riferimento solo a Firenze, voglio dire cioè a questa nostra società ormai, almeno da noi, satura di segnali, di comunicazioni, di immagini, noi dobbiamo essere testimoni di una fede che includa l’imprevisto come possibilità attraverso la quale torniamo ad avere un accordo che risuona nel cuore della nostra gente che ormai nulla più attende, e se attende qualcosa, lo attende nel segno della paura, diventandone ostaggio, chiudendosi in casa, questa è la situazione storica culturale di questo tempo presente.

Che il Signore dunque ci visiti, ci apra all’imprevisto, disorientandoci con quell’amore, nello stesso tempo rassicurante e liberante, che il Signore Gesù ha dimostrato, liberando per sempre, anche da sé stesso, quella donna e ciascuno di noi. Amen!

 

Trascrizione a cura di Grazia Collini

La fotografia è stata scattata da Spasiyana Sergieva il 30 marzo 2022 a Sofia e ritrae l’artista e acrobata francese Antoine Le Menestrel

 

 

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