Omelie

«Amici o nemici della croce? Dalla catarsi della piazza al sudore del monte». Omelia del padre abate Bernardo per la II Domenica di Quaresima

13 Marzo 2022 – II domenica di Quaresima ©

 

Dal libro della Gènesi
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo».
Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
«Alla tua discendenza
io do questa terra,
dal fiume d’Egitto
al grande fiume, il fiume Eufrate».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra.
La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

Omelia:

Fratelli e sorelle, mai come stamani la liturgia ci offre la percezione e la consapevolezza di un cammino, di una esperienza performativa che vede coinvolte le nostre corporeità, anzitutto nella loro disponibilità  a disperdersi e a lasciarsi riconvocare, domenica dopo domenica, dall’azione dello Spirito, in una esperienza dinamica che traccia come filigrana, assimilabile ad un arabesco tanto bello quanto geometrico, sottostante al disordine caotico dei nostri abituali e feriali movimenti, irriducibili ad una ricognizione di armonia, di significato, di pregnanza che noi, aiutati dalla bellezza, dalla intensità, non a caso anche geometrica di questo luogo, ritroviamo come vero spessore, come orditura forte del tempo che trascorre, che subiamo, e di cui invece in Cristo diventiamo capaci di signoria, assegnandogli un significato, una destinazione, una qualità, senza le quali noi davvero vivremmo solo e soltanto dispersione e dissipazione, sinonimi di un invecchiamento non solo del nostro fisico logorato, ma soprattutto di quell’investimento nel futuro, oggi quanto mai arduo e difficile proprio per questo profezia riservata ai credenti nel Signore Gesù, al loro umile discepolato, al privilegio di essere invitati, per l’amicizia stabilita col Signore Gesù, sulla sacra montagna, come voi siete, come noi siamo, dono che non può non trasformarsi in responsabilità in missione, in modo particolare conferita al vostro ministero della secolarità, cioè del vostro abitare il secolo, il mondo della città, delle relazioni orizzontali, dove siete incaricati di portare l’esperienza trasfigurante di cui siete e siamo protagonisti e testimoni nell’essere invitati nel cuore della liturgia, la sua esperienza di mistero, nell’essere raggiunti da quella nube di cui è simbolo l’incenso, di cui è partecipazione tutta quella bellezza che ci invita a spogliarci dalle nostre pretese per vivere un’attesa, fratelli e sorelle, di cui è singolare il passaggio simbolico fra i tantissimi di una liturgia della parola di straordinaria ricchezza, questa destituzione dell’iniziativa di Pietro che vuole, lo avete ascoltato costruire tre tende,  ma il suo soggettivismo paragonabile per tanti versi alle nostre pretese soggettivistiche, viene ribaltato dal dono che il Padre fa di ben altra tenda, di ben altro tabernacolo, è la nube la nuova tenda fatta di luce, di gloria, di mistero, di bellezza, di presenza che ospita coloro che sono testimoni del frutto della preghiera del Signore Gesù.

Perché mai come nel Vangelo di Luca, il suo racconto della trasfigurazione, ma mai come in questo tempo, torna ad essere misteriosamente attuale il tema della preghiera, naturalmente declinato secondo quelle immagini con cui oggi questa nostra povera contemporaneità, va detto, pensa sé stessa e dunque anche qualsiasi esperienza del mistero che viene immediatamente sottoposto, per non dire deformato, dalla sua mentalità utilitaristica.

Siamo in guerra, siamo sotto minaccia, vediamo con una lodevolissima e provvidenziale empatia e compassione le vicende del popolo ucraino, ma non solo del popolo ucraino, di tanta fetta di umanità che è protagonista e soprattutto subisce guerre spesso dimenticate, e di fatto anche in una sorta di immedesimazione, riscopriamo come veniamo intervistati, l’arma della preghiera, espressione oltremodo inaccettabile e che segnala, come dicevo, questa nostra mentalità utilitaristica,  funzionalistica, aggressiva, nel migliore dei casi difensiva, che riesce a trasformare in proiettile anche l’esperienza più radicale di disarmo che è per l’appunto la precarietà della preghiera.

E quindi varrà la pena, davvero, fratelli e sorelle carissimi domandarsi qualcosa della preghiera alla luce di questa pagina di Vangelo che racconta anzitutto, e mette a tema l’effetto di una preghiera che prepara il Signore Gesù ad ascoltare la rilettura dell’antica parola di Israele, Mosè ed Elia circa l’esodo del Signore Gesù, introduce il Signore Gesù alla sua Pasqua fratelli e sorelle, quindi è della massima importanza riconoscere il Tabor, quasi l’anteriorità simmetrica di ciò che vivremo la sera di Pasqua rileggendo il Vangelo di Emmaus quando, ancora una volta il Signore Gesù, questa volta risorto, come soggetto della Chiesa che lo Spirito genera, rilegge sé stesso attraverso, ve lo ricordate, tutte quelle occorrenze del Primo Testamento in cui si parlava della sua sofferenza, profetata dall’antica parola di Israele, ai due misteriosi interlocutori, uno dei quali era forse davvero San Luca, che si preparava ad annotare quel mirabile racconto, quella rilettura della vicenda del Signore Gesù alla luce della sofferenza e che qui invece è anticipata. Quindi cogliete davvero questa successione, questi segmenti dinamici della parola di Dio, ma anche del nostro essere qui, non mi stanco di dirlo, fratelli  e sorelle, per noi è irrinunciabile la liturgia, soprattutto domenicale, è il metodo, lo svelamento, la partecipazione al substrato profondo e veritativo della nostra condizione esistenziale senza la quale l’esito, lo dico forse con toni in po’ apocalittici, non può che  essere dispersione e dissipazione.

Per cui ci sentiamo davvero addestrati a percorrere questo itinerario, si diceva all’inizio della celebrazione, dal deserto, il luogo simbolicamente evidente della destrutturazione, dell’assenza di forma, la depressione desertica dove la duna è il simbolo dell’instabilità, dove il vento, fosse anche quello dello Spirito, serve solo e soltanto a smaterializzare il paesaggio che ci circonda.

Qui il vento dello Spirito invece sulla montagna, porta il Signore Gesù e tutti noi nel cuore di una luminosità, nebulosa certamente, rivelazione significa svelamento, ma velare ancora, di nuovo, ciò che è inaccessibile nella sua pienezza ai nostri occhi. Ma in questa esperienza di salita al monte ci accorgiamo quale sia il frutto disarmante della ritrovata figliolanza del Signore Gesù nella prova, nell’apprendistato del deserto, potremmo dire il nostro deserto, l’aggiornamento minuto dopo minuto del bollettino di guerra in Ucraina che segnala davvero la perdita di logos, di forma, di sostanza della nostra condizione umana, della ragionevolezza, tutto viene destituito.

Bene ha detto Papa Francesco a parlare la guerra di pazzia e pazzia è anche fratelli e sorelle, rincorrere la guerra armandoci, sia detto con grande forza, respingiamo la tentazione e la seduzione di sconfiggere le armi con le armi, è semplicemente antievangelico, la via è la profezia del disarmo precario con cui il Signore Gesù porta la sua ritrovata figliolanza, messa alla prova nel deserto, al cospetto del Padre dopo la fatica del monte entrando in questa logica esodica. Questo ci sta dicendo la parola di Dio, tutto il resto è geopolitica, non mi interessa, non sono competente fratelli e sorelle, ma se vogliamo sintonizzarci sulla forza espressiva della parola del Signore, questa è la via, non v’è altro e il Vangelo di oggi provvidenzialmente riporta la Chiesa e la nostra missione profetica nella società a questa eccedenza, apparentemente illogica rispetto a tutti i calcoli che avranno la loro validità, per l’amore del Signore, avranno la loro plausibilità, non sta a me dirlo, ma questa è la parola del Signore, non v’è dubbio, questa eccedenza scomoda che parla proprio di esodo, quindi di fuga nel cuore stesso di una esperienza che porta il disarmo del Signore Gesù, la sua figliolanza nuda e scoperta nel cuore stesso della morte crocifissa. E recuperiamo così fratelli e sorelle, l’avvertimento di Paolo, cosa significa essere nemici della croce? Un discernimento durissimo quello che Paolo esprime ricordandoci che i nemici della croce fanno del ventre il loro Dio cioè il luogo viscerale, come si dice in gergo di cronaca politica “si è votato di pancia”. Cioè si è posto come baricentro della nostra esistenza, non il cuore, tanto meno il logos, ma l’istinto di sopravvivenza di cui è espressione tutta la dinamica degli appetiti che stanno sotto il diaframma, anche questi necessari, non leggiate in me davvero fratelli e sorelle carissimi, polemiche contingenti, io sto solo cercando di servire la parola e di comunicarvela con passione per quello che la parola scuote nel mio cuore, nelle mie viscere. Io poi probabilmente di mio mi riarmerei fino ai denti, ma questo è quello che ascolto nello Spirito, di questa vicenda radicalmente pasquale del Signore Gesù, del suo farsi amico della croce, portandoci non solo le viscere, ma non a caso quel cuore che verrà trafitto nel centro della persona nella prospettiva biblica.

È lì che il Signore stabilisce questa misteriosa illogica paradossale sponsalità col mistero della fine, della morte, dell’inconsistenza, della deformità, del destrutturarsi che ha imparato ad attraversare nel deserto, per confidare nel Padre. Capite che tutto ritorna in questo movimento quasi ondulatorio e noi siamo qui fratelli e sorelle, dentro questo movimento, invitati ad attualizzare, a rileggere, ad abitare quest’onda, molto al di là, ve lo dico anche così, delle catarsi con le quali, io devo dire, ho letto commenti all’indomani della manifestazione di Santa Croce, ci siamo liberati un pochino, manifestando, sventolando, ma di fronte al dramma della guerra, fratelli e sorelle, può bastare questa coreografia collettiva, siamo disponibili, lo dico da fratello a fratello e sorella, siamo disponibili a d accontentarci di questa sorta di esposizione immediata del nostro cuore all’emozione con la quale liberarci spurgarci sentirci più vicini? O forse almeno per noi che abbiamo avuto in dono con lo Spirito Santo, la fede, non sarà piuttosto prossimità ulteriore, sofferta, oltre all’agire concreto nella carità, salire la montagna, porci in solitudine, ascoltare le nostre paure, le nostre angosce, le nostre inquietudini, le nostre domande più profonde, esporre il nostro cuore alla forza destabilizzante di quella violenza che chiama la violenza anche sotto l’etichetta nobilissima della resistenza e dell’autodifesa, per l’amore di Dio, ma pur sempre violenza resta e dunque la nostra coscienza non può non essere scossa, non può non domandarsi cosa significa da entrambe le parti mandare i propri figli in guerra. Capite come le cose alla luce dello Spirito sono molto più complesse anche come analisi, non solo spirituale e psicologica, ma storica e politica di quello che le emozioni catartiche provvedono come inevitabile scorciatoia, perché la nostra cultura della contemporaneità è una cultura che va veloce, troppo veloce, funziona come uno smartphone, rimette insieme le immagini e le parole con un touchscreen, ma la realtà fratelli e sorelle, e la liturgia pazientemente ce lo insegna, è molto più complessa, chiede orditure da scrutare investigare, nodi complessi da sciogliere e magari da ricomporre per rendere questo percorso davvero praticabile per noi, per i nostri figli, i nostri nipoti.

Quindi la montagna, la solitudine, il torpore.

Un’altra esperienza fratelli e sorelle ormai ostaggio dei nostri meccanismi funzionalistici, farmacologici, psicologici, il sonno ormai è soggetto, anzi oggetto, di una tecnologia con la quale spengere e accendere i nostri motori, la nostra coscienza, stabilire i nostri tempi e voi vedete che oggi la parola di Dio invece parla di un torpore misterioso che scende in Abramo, scende nei discepoli, segnala la possibilità di riconoscere un limite indisponibile alla nostra volontà, alle nostre tecnologie, alle nostre risorse, per entrare nell’ulteriorità di Dio attraverso il  limite, la morte si direbbe dei nostri sensi, dei nostri avvertimenti, della nostra stessa coscienza per entrare nella dimensione quasi ipnotica del sonno, anche questo fratelli e sorelle significa diventare amici della croce, anche questo.

Non a caso San Benedetto raccomanda, anche se contravveniamo troppe volte «post completorium nemo loquatur», cioè dopo l’ultima preghiera della sera nessun monaco più parla in monastero, perché è la notte nell’orizzonte simbolico, armonico della giornata benedettina che è un grande tentativo di ristabilire il primato della misura nel disordine della nostra controversia storia, è simbolo di morte in cui ci si immerge, nel silenzio, nel disarmo della sonnolenza, nell’affidamento alla luce che verrà dopo le tenebre, capite che è la stessa identica struttura che il Tabor ci sta insegnando, che la liturgia ci sta insegnando, un depotenziarci, altro che arma della preghiera!

Come se fossimo in controffensiva, bene, male, come se ancora una volta le nostre velleità soggettivistiche avessero una qualche pretesa rispetto al mysterium iniquitatis. È una banalizzazione del male anche questa fratelli e sorelle, la scenografia esistenziale in cui si colloca la vicenda ucraina e mille altre vicende di questo mondo molto più interconnesso ahimè di quello che si pensa, soprattutto nel segno del male, è davvero un’esperienza che esige un salto di qualità, si direbbe col linguaggio evangelico di oggi, esige una trasfigurazione e questa trasfigurazione accade davvero se, come amici della croce, facciamo spazio ad una ulteriorità, spengiamo per così dire i nostri motori, i nostri calcoli, le nostre previsioni, ci poniamo in radicale attesa che non significa lo sapete benissimo, passività, inazione, anzi, anzi, fratelli e sorelle, significa fare quel vuoto che permetterà di riconoscere non soltanto l’appetito del ventre su cui ci stiamo esercitando coi nostri piccoli digiuni quaresimali, ma soprattutto attraverso di esse anche e soprattutto l’appetito del cuore, la sua sete e fame di verità e quindi l’insonne desiderio di porci anche noi su quella montagna come esperienza che si affaccia sull’altro crinale, quello di cui nessun giornale ci parlerà mai o quasi mai, in una prospettiva che ci rende familiari della penombra, maestri dell’attesa, custodi del desiderio e dunque finalmente profeti di una eccedenza e di una novità che nessuna previsione geopolitica potrà mai annunciare, perché questa dimensione che ci lascia svuotare dentro, consegna una tensione fratelli e sorelle a trecentosessanta gradi, alfa e omega, principio e fine, cielo, terra, ovvero quel nostro essere maestri di sintesi, perché siamo stati disponibili a lasciarci tagliare in due, che è un altro dei grandi frutti di questa liturgia della parola che avete ascoltato: Abramo divide, separa le sue offerte, gesto simbolico evidentemente che segnala appunto questo squartare, questo lasciarci aprire, questa consapevolezza di una provvisorietà della nostra unitarietà. E d’altra parte la nube scende, lo avete ascoltato, e come premessa e esito è la separazione rispetto all’antica parola di Israele, Mosè ed Elia spariscono di circolazione, non si vedono più, resta Gesù solo.

Ecco fratelli e sorelle, è esattamente percorrendo questa lama molto tagliente, molto poco consolante, tanto meno catartica ed emozionalmente seducente che noi, oso dirlo, perdonate il mio linguaggio un po’ esigente, possiamo diventare maestri testimoni di pace, una parola della quale in questi giorni si riempiono così talmente tante bocche che la conseguenza, almeno per noi, è andare alla ricerca filologica, oltre che teologica e antropologica, di un significato se non altro più profondo di questa parola. Non a caso oggi la parola di Dio chiedendoci di diventare amici della croce ci addestra profondamente a non fermarci all’emozione, a salire la montagna, porci domande altissime e a fronte delle nostre balbuzie  e del nostro   benedetto torpore a stendere le mani verso l’alto per essere invocazione sofferta, disarmata e disarmante, di una pace che da soli non possiamo darci e che, brillando nel nostro volto come consolazione del Padre nel Figlio, che Lui riesce a vedere già vivo in noi, possiamo portare come annuncio pasquale giù a valle.

Lo farete in questi giorni che attendono la vostra missione, il vostro esserci, il vostro Amen!

 

La trascrizione è a cura di Grazia Collini

La fotografia ritrae il cappellano militare Nikolay Medynsky mentre benedice un soldato ucraino presso Kyiv ed è stata scattata da Thomas Peter

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