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«Henry Moore a San Miniato al Monte». Una nota del padre abate Bernardo

Meditazioni

Henry Moore a San Miniato al Monte

Frugando negli archivi più remoti della memoria riesco a ricordare l’impressione che fece a me bambino vedere nella mia Prato il pratone verde di piazza San Marco improvvisamente ornato da una singolarissima epifania di marmo apuano che la città aveva acquisito quasi per riparare al torto del folle abbattimento di Porta Fiorentina, distrutta nel 1886, assieme a un importante tratto delle mura difensive della città medioevale, per far posto al cosiddetto tranvai diretto al detestato capoluogo. Era il 1974, avevo 6 anni e quella piazza era cambiata per sempre, simbolo di una comunità cittadina che un secolo dopo si era resa certamente più avvertita del suo trascorso storico e artistico, ma anche e soprattutto si lasciava fiduciosamente interrogare dal futuro attraverso un ascolto attento e sistematico della contemporaneità, nonostante il chiasso costante dei telai perennemente all’opera nei mille e mille opifici della Prato di allora. Ben altra porta era quella concepita dal genio del grande artista inglese rispetto a quella demolita. Facilissimo immaginare quest’ultima ben munita e a suo modo febbrilmente militarizzata giorno e notte, diffidente della grande Firenze dalle cui superbe pretese doveva proteggere per secoli e secoli un’intera cittadinanza. Si sentiva dire da chi se ne intendeva che lo scultore aveva chiamato con estro immaginifico la sua moderna erede Forma squadrata con taglio, ma poi la vedevi tutt’altro che squadrata, anzi sinuosa, morbida, astrattamente corporea, albescente e quasi appoggiata in miracoloso bilico nel remoto ormeggio di quella marezzata vastità di erba urbana. Una porta dal taglio misteriosamente accogliente, attraversabile, disarmante e invitante, come è, o per lo meno come dovrebbe continuare ad essere, il tipico tratto pratese che dell’integrazione inclusiva e cordiale ha fatto per decenni il segreto propulsivo della sua composita identità e della sua insonne forza lavoro. Adesso, per benemerita iniziativa del Museo del Novecento e del suo pratesissimo direttore, Sergio Risaliti, l’abate cresciuto nella sua stessa città ha il privilegio di accostare temporaneamente a quella mirabile Porta Coeli romanica che è San Miniato al Monte un’altra opera di Henry Moore, il celeberrimo Family Group, originariamente realizzato dall’artista per una scuola britannica. Questa volta, dunque, sono le forme squadrate con triplice taglio dell’architettura trinitaria della nostra facciata di marmo bianco e verde ad ospitare una bronzea rappresentazione di archetipale eloquenza della famiglia, «scuola di arricchimento umano», come la definisce, con saggia e ispirata intensità, il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes. Con un accorato auspicio: che questa meravigliosa scultura, così capace di celebrare con silenziosa efficacia l’intreccio generativo di quelle domestiche e delicate relazioni innervate dalla reciprocità, dalla fecondità e dalla fedeltà, propizi in tutti noi, col magistero della bellezza, l’intuizione che senza una vera scuola del dialogo, del desiderio e della pazienza le nuove generazioni troveranno sempre meno affidabili ragioni per sentirsi corresponsabili di un bene comune che non potrà non riguardare l’intera famiglia umana, quella che salendo su questa collina da ogni angolo del mondo troverà, presso la nostra basilica e fino alla prossima primavera, un dono e un’occasione in più per specchiarsi nella consapevolezza della propria dignità e della sua conseguente missione, ora più che mai davvero universale, di pace, di giustizia e di speranza.

padre Bernardo,

abate di San Miniato al Monte

La fotografia ritrae Family group di Henry Moore nella sua temporanea collocazione sul sagrato della basilica di San Miniato al Monte

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