Omelie

«Le luminose e “lunghe ali d’ombra” della nostra amica». Omelia del padre abate Bernardo per le esequie di Donatella Carmi

Cari fratelli e sorelle e, in modo tutto particolare, carissimo Massimo, carissime Francesca e Simonetta -includo in questo specialissimo saluto iniziale i nipoti di cui non conosco il nome- e naturalmente tutte e tutti voi amiche e amici legatissimi a Donatella, Vi invito a sentirvi a casa in questo luogo, come se fosse davvero vostro, per ritrovarci uniti stamani almeno nel segno della bellezza: il desiderio di quest’ultima infatti accomuna tutti noi, credenti o non credenti e ispira potentemente il nostro grato congedo alla nostra amatissima Donatella.

Ho scelto questo Vangelo perché mi sembrava importante far riecheggiare oggi a San Miniato una protesta, una protesta tutta femminile: “se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”; oso dire infatti che la vita di Donatella aveva assunto nella sua determinazione al bene altrui questa forma radicale di protesta, di cui erano segno l’inquietudine, l’insoddisfazione, questa sorta di brama, di fame, di sete di poter fare del suo corpo una costante frammentazione, perché tutto di lei potesse lenire il dolore altrui, avendolo lei stessa subìto e conosciuto nella forma della perdita, oserei dire della reiterata perdita, in una ostinata configurazione che svela in questa donna il riverbero di quella sorta di carattere tipico del mondo alla quale Donatella non ha mai smesso di appartenere. Dico questo con gratitudine e con stupore, lo dico con un senso quasi istituzionale, da uomo di Chiesa nel salutare cioè l’ebraismo di Donatella, ovvero questa specialissima forma della fede/non fede con la quale questo popolo non ha mai smesso da un lato di credere in un promettente Dio della storia, tenacemente presupporlo come autentico significato di una vicenda esistenziale costantemente messa alla prova con la perdita della propria terra, della propria progenie, della propria libertà, della propria sicurezza e d’altronde, proprio attraverso la perdita, l’unica possibilità di consacrare tutto della realtà perché la vita non diventi pura follia, ma ragionevole esigenza di dedizione, di responsabilità, di intelligenza e di creatività, per cui magari non esisterà, ma altrove, all’eventuale compimento di una antica e misteriosa promessa, una qualche alterità dovrà pur esserci che dia garanzia alla mia insopprimibile e pervicace dedizione alla storia. Ravviso qui, se così posso dire, il dramma, e nello stesso tempo, la luce che viene dalla grande auto-consapevolezza che l’ebraismo, con la sua missione universale ha e non smetterà mai di avere, anche se Israele ha guadagnato un frammento di terra in questo nostro pianeta. E per la nostra Donatella, oltre agli affetti fortissimi e così caratterizzanti della sua famiglia, la sua terra, la sua patria sono diventati -penso di poterlo di dire senza mancare di rispetto al dolore dell’amatissimo sposo, della figlia Francesca, della sorella Simonetta, delle adorate nipoti- il letto, i gemiti, gli sguardi, i silenzi, le speranze e le rassegnazioni dei suoi innumerevoli sofferenti per i quali valgono assolutamente, assolutamente valgono -perdonerete la mia commozione- questi versi bellissimi di Antonia Pozzi:

Avere due lunghe ali

d’ombra

e piegarle su questo tuo male;

essere ombra, pace

serale

intorno al tuo spento

sorriso.

 

Così nel 1934, una donna, come la nostra Donatella altrettanto inquieta, che ha dovuto scegliere per dare dimora alla sua sofferenza la morte (capite benissimo a cosa alludo), ha scritto questi versi che trovo la sintesi perfetta dell’esistenza di Donatella, versi evocativi dell’acqua con la quale ha dissetato quell’inquietudine, della pace con la quale ha provato a calmare la sua protesta, della consolazione con la quale ha unto le piaghe del suo prossimo: “se tu fossi stato qui”… mio fratello, mia figlia, questi malati non morirebbero e dobbiamo farci interrogare da questa protesta per dire ancora una volta quello che in questa Basilica non manco quasi mai di ricordare e cioè come la fede non sia una banale consolazione, la fede non sia geometrica certezza, la fede non sia epidermica rassicurazione, semmai la fede autenticamente desiderata e sofferta schiude la via della speranza, quest’ultima sì è virtù teologale, non la certezza, non la sicurezza, non il ragionamento, non l’argomentazione, ma quello che San Benedetto molto secoli fa -modernamente si potrebbe quasi dire- qualifica come il quaerere Deum, il cercare Dio quale contrassegno adeguato di una inquietudine infinita, come infinito può divenire il dolore, come infinito è stato e rimane il cuore di Donatella, nel segno dell’amore, nel segno della perdita, nel segno della sofferenza ma, e qui forse la differenza con la poetessa, nel segno di una dedizione operosa e concreta all’altro, facendo di questi versi e della loro bellissima misteriosità, il gesto che ha trasformato le ali d’ombra di Antonia Pozzi nelle ali di luce della nostra Donatella. Bene lo sanno tutti coloro che alla sua scuola hanno imparato, come giustamente è stato detto ieri sui giornali, a «cambiare mentalità». Grazie all’incontro con Donatella anch’io ho cambiato mentalità, perché in effetti il suo sguardo inquieto ci ha chiesto di demitizzare, per così dire, di desacralizzare ogni ideologica apologia della sofferenza, rappresentando così un pungolo a quella tentazione che alle volte seduce una certa riduttiva esperienza di “fede”, quella cioè di dare una risposta a tutto, una sistemazione a tutto, un fine a tutto. Donatella ci ha invece dimostrato che la sofferenza, assolutizzata in se stessa, non serve a niente e a nessuno, né a chi la subisce, né a chi circonda il sofferente e -lasciatemelo dire- nemmeno a Dio. Se vogliamo davvero credere, come il Vangelo ci invita a fare, in un Dio-Amore allora non possiamo credere che Dio si compiaccia delle nostre sofferenze, io cesserei anzi di crederci in un Dio così. In questa prospettiva tutto di Donatella è servito a consolare la nostra umanità e, lasciatemelo dire con le parole di un’altra straordinaria donna, Etty Hillesum, a consolare lo stesso Dio, in una sorte di mistica identificazione del divino e del numinoso con chi vive il mistero della sofferenza. E questo è un dato di fatto altrettanto tipico dell’ebraismo novecentesco, ovvero questa assenza, questa contrazione di un Dio che paradossalmente si lascia incontrare nel vuoto che egli ha lasciato, di cui è indizio l’olocausto, di cui è indizio la perdita di Benedetta, di cui è indizio quel male avversato da Donatella e che in questi ultimi anni ha provato a vendicarsi sul suo stesso corpo con il provvisorio successo che in questa triste circostanza dobbiamo tutti noi di fatto constatare. Quel male aveva scavato e inciso, nel volto di sua figlia e in quello di tutti coloro che la nostra amica ha avvicinato, una sorta di faglia che Dona ha provato a colmare di una luce certamente tenue, essa stessa opacizzata dalla nebbia del male subìto, ma pur sempre luce. Ed è in questa luce umanissima e divinissima che noi dobbiamo, per così dire, incontrare, decifrare e rileggere la protesta di Donatella, ma anche la sua possibile trasfigurazione, nel segno della cura, dell’attenzione, dell’amore, dell’uscita radicale da se stessi. Quante cose continuerà ad insegnarci questa donna, quanto aiuto ci darà a raffinare, per chi ce l’ha, la fede, quanto intensificherà in tutte e tutti noi, nessuno escluso, la responsabilità del nostro cuore e della nostra intelligenza negli impegnativi riguardi di coloro che invece si ostinano a ritenere, e adesso ne avrebbe ulteriore giustificazioni con la pandemia che stiamo vivendo, che la vita debba sostanzialmente identificarsi con il gretto, terrorizzato ed egoistico sopravvivere. Ognuno di noi è intatti spesso tentato di lasciarsi rinchiudere di buon animo e volentieri nei propri presunti e rassicuranti confini che possono essere la mia famiglia, la mia comunità, le mie identità, le nostre culture: questi sono spesso i tanti feticci con i quali proviamo vanamente a difenderci dall’urgere di quella vita e di quella storia che la nostra Donatella -ebrea come il Signore Gesù- ha invece affrontato di petto, con forza, con coraggio, con dedizione, lasciando poi che il suo corpo e la sua anima si frammentassero, si sbriciolassero per nutrire la nostra umanità fino a spingersi, con l’estremo sguardo del desiderio, in cielo per ritrovare Benedetta e, forse, per consolare Dio stesso:

Avere due lunghe ali

d’ombra

e piegarle su questo tuo male;

essere ombra, pace

serale

intorno al tuo spento

sorriso.

Amen!

Firenze, Basilica di San Miniato al Monte

19 ottobre 2020

Trascrizione a cura di Anna Maria del Balzo

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