27 aprile 2018: Millenario di San Miniato al Monte. La meditazione di madre Maria Ignazia Angelini, abbadessa delle Benedettine di Viboldone

27 aprile 2018: Millenario di San Miniato al Monte. La meditazione di madre Maria Ignazia Angelini, abbadessa delle Benedettine di Viboldone

Meditazioni

“… siamo qui per questo … (M Luzi)

“… a renderci umani sono lo stupore,

la sensazione dell’ignoto

e la consapevolezza del limite”

 

“Davanti al Signore un giorno è come mille anni

e mille anni come un giorno solo.

Il Signore non ritarda

nell’adempiere la sua promessa…”.

2 Pt 3, 8.

“Signore, Tu per noi

sei stato dimora

di generazione in generazione”

(Sal 90.1)

 Mille anni di vita monastica a San Miniato al Monte.

Questo luogo – salendovi a distanza di più di cinquant’anni, lo capisco ancor più -, per essere vissuto in verità, chiede molto silenzio. Silenzio di ascolto. Perché tutto, ogni cosa – qui – parla, alto, sommessa,ente. Dice una Presenza.

 

Perciò parlo con esitazione.

 

Silenzio, qui, è richiesto nello stesso parlare. Perché lo spazio sacro sia libero per radunare i tempi – e il tempo indetto dalla sacra memoria generi colloquio non vano. Lasciare che risuoni la Voce, e le voci alte e scavate nel tempo che qui si convocano, s’intreccino. Bellezza, martirio, storia, giorni, lutto, abbandoni, desolazione, insulto (“l’affligge, la rode, nella sua dura carità, il presente”, M. Luzi),. Memoria che genera futuro. Visione e memoria qui si devono congiungere. Nel silenzio di ascolto, grembo  di futuro.

 

“Siamo qui per questo” (M. Luzi…). Ma come?

 

Qui – dalla soglia all’abside -, siamo avvolti e illuminati dal magistero di Gesù.

E Gesù è il ribaltamento di tutti i millenari: consummatus in brevi (Sap 4,13), ha in breve bruciato secoli per lanciarsi verso l’Ora. La sua ora. Ha rivelato che il tempo, in lui compiuto, ha ormai un solo senso: trascorre per la pazienza di Dio che attende conversione: san Pietro si congiunge a san Benedetto per proclamarlo alto (2 Pt 3,8; R.B., Pr. 37).

E tuttavia, la sapienza di Colui che in breve a compiuto tutti i tempi non lascia privo di senso nessun istante umano. Solo sovverte – sì, lui, principio dei giorni e compimento – il computo dei giorni. In lui apprendiamo il segreto del tempo salvato: il suo giorno, breve, è come mille anni.

 

È la contestazione, Gesù, di ogni tempio maestoso fatto da mano umana. Lui, cacciato fuori come un bestemmiatore. Tempio di Dio è l’uomo vivente, la più perfetta e fragile, la più precaria delle creature. Egli – l’uomo Gesù – è “Dio, Luogo di ogni luogo, Luogo che non ha luogo” (ci sia consentito usare l’espressione di un’antica sentenza ebraica). Tuttavia Gesù frequenta e ama le soglie della casa di Dio – lui stesso si è paragonato alla “porta”: spazio aperto, libertà di entrare uscire  e trovare nutrimento.

 

Gesù demitizza i monti “santi” (oggi è giorno stranamente legato a altri, diversi monti santi…). “Né su questo monte, né sulla collina di Sion” annuncia solennemente Gesù alla donna incontrata al pozzo (cf Gv 4,21). E tuttavia lui amava salire sul monte a pregare. Ad ascoltare il Soffio del silenzio scavato, nella notte.

 

Dunque, timore  e riguardo, nell’entrare in questa festa di mille anni di vita monastica, quassù.

 

Eppure, un Salmo mi guida a un’esperienza immersiva di questo Millenario; mi ha condotto qui, dalla bassa milanese, dall’abbazia umiliata, dalle rosse pietre, a celebrare il millennio, quello della presenza dei monaci in un Luogo che s’intuisce “segnato”. Un Salmo per vivere il compiersi di questo giorno carico di memoria, 27 aprile, eco viva dell’ “oggi” fanciullo che- in ogni quotidianità aperta al venire di Dio, rallegra il cuore di eterno.

 

Un Salmo. Non saprei come altrimenti partecipare a questa festa. Mi colpisce che Gesù, appropriandosi i Salmi nella sua breve e intesa vicenda di figlio d’uomo, ha compiuto i tempi (Gv 19,28-30). I Salmi – cuore dell’esperienza monastica e traccia del fiume di millenni di umanità in preghiera – a una monaca appaiono indispensabile grembo per radunarsi a vivere memoria capace di aprire futuro.

 

Insegnano, i Salmi, l’arte – l’istante e i tempi – di celebrare. Arte che richiede sensi umani perspicaci, capaci di cogliere memoria non vana, di annodare: nel frammento, l’eterno. Dall’uno, ai molti. Nell’insieme di pochi, il grande raduno – dove non manca nessuno. Il millennio, gustato, visitato qui, nella breve sosta notturna.

 

“Nei Salmi troverà tutto, la storia mia e la sua, e tutto gettato meravigliosamente in grembo a Dio, un enorme diario di tutto l’uomo scritto per i soli occhi di Dio” (Cr. Campo, Lettere a Mita, n. 178, p. 205).

 

Di quest’arte di stare nel tempo da umani, i Salmi sono espressione somma. I monaci l’hanno scoperta e affinata, anche qui, di generazione in generazione. “… I Salmi sono un ponte di corda, ondeggi, spesso cadi. (…) I Salmi (….) non consolano, non fortificano, non insegnano nulla, mi rammentano cos’è l’uomo» (Davide Brullo, I Salmi, Ed Città Nuova, 2011). Dal Libro dei Salmi, scrive Ceronetti, «si può non uscire credenti e pii; impossibile non uscirne pensanti, trafitti da tre spade, il pensiero dell’uomo, del deserto, di Dio».

 

La vita in monastero mi ha insegnato – in ogni evento – a cercare il salmo che guida per intenderne il senso, per cantarlo.

 

Un salmo, dunque, mi fa strada: nel desiderio di stare insieme in verità, a far memoria di mille anni “come un turno di veglia nella notte”. Come chi apprende a “far conto” di ogni giorno dell’uomo, l’Adam, il terroso. Grande conto: un istante, mille anni. La storia di Dio con l’uomo è intessuta infatti di istanti che contano come mille anni; e di lunga, lunghissima pazienza.

 

Come recitandolo sul cantus firmus del silenzio – ut post completorium nemo loquatur! (R.B. 42)- , vorrei meditare con i monaci fratelli, con tutti voi qui presenti, ad alta voce, a partire dal salmo 90.

 

“Rifugio Tu, o Dio,

sei per noi

di generazione in generazione”.

 

È Mosè che prega. L’unico Salmo in tutto il Salterio (per lo più, attribuito a Davide) composto dall’ “uomo di Dio”. L’uomo più umile della terra: a lui pertanto Dio poteva parlava bocca  a bocca, come ad amico. Uno, per i molti. Dall’esposizione alle grandi acque del Nilo, fino alla soglia della terra promessa, ove il suo piede si arresta par lasciare passare il popolo, Mosè ha contato e scontato – tutto lungo il suo vivere – il peso di ambiguità dei giorni umani. E ne ha fatto preghiera.

 

“Rifugio, Tu”. In Mosè, pregano i monaci sul monte di S. Miniato, celebrando il millenario; preghiamo tutte e tutti, segnati anche noi dall’interrogativo che chiude il III Libro del Salterio – “perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?” (Sal 89.48) – domanda che qui, nel primo Salmo del IV libro, riecheggia e trova scioglimento.

 

Tu, rifugio. Quel “Tu” (’attâ) scandito in posizione forte imprime subito la percezione di un’esperienza originaria, che – certo – percorre tutto il Salterio, ma questo salmo in modo singolarissimo. E – mi pare – segna con tratti singolari questo Luogo in terra fiorentina, così esposto. Tanto amato. Tanto frequentato come “porta ospitale”: “Rifugio,Tu!”. Come capì all’improvviso – mille anni fa – il vescovo Ildebrando. Ossa di martiri sorgono dall’oblio: e tutto per la città trova nuovo inizio. Riparo.

 

“Rifugio, tu”. Ogni angolo qui ne risuona. Nel muoversi arrischiato, gettato nel tempo, il salmista si riconosce preceduto da un immemore Grazia creatrice di mondi, come qui nel silenzio viene da esclamare, in ascolto della voce potente del Cristo Pantokrator: “Prima che nascessero i monti, la terra e il mondo fossero generati, Tu sei” (v, 2). Qui l’essere umano, il martire venuto dall’Oriente – trova voce nella voce del condottiero di popoli, Mosè, l’uno per i tutti -, il martire, soffio, precarietà fatta persona, scopre d’improvviso che mai è stato abbandonato. Vive alla Presenza. E raduna la città.

 

Del singolare legame di Mosè con Dio – in rapporto al tempo e al passare delle generazioni – non c’è l’uguale. Obbedendo alla chiamata di Dio presso il roveto ardente, ha visto nascere un popolo; e ha compiuto la vita, sazio di giorni e vivo negli occhi e nel cuore (“gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno”: dice Dt 34,7). La sua anima è stata raccolta da Dio in un bacio bocca a bocca. Ma l’opera sua rimase interrotta, come in sospeso – in obbedienza al comando del Signore – sulla soglia del monte Nebo. Ed è proprio il radicamento in una vita d’uomo che trova pienezza nel restare interrotta sulla soglia, come a farsi “porta” per altri, che rende così pregnante questa preghiera del Sal 90. Così affine all’evento di mille anni fa: germogliare del martire – chicco di grano caduto a terra – nascita di un cenobio. Splendere della città.

 

“Rifugio tu, Signore, sei stato per noi, di generazione in generazione”. Rifugio perché salvi: non dal pericolo ma nel pericolo – ben lo sanno i monaci. Rifugio singolare: non protetto ma protezione attraverso l’arrischiato fluire – gratuito, fedele – dei tempi. Esodo perenne nel quale è il riposo. “Rifugio,tu”:

 

Sal 66,9 è lui che ci mantiene fra i viventi

e non ha lasciato vacillare i nostri piedi.

10 O Dio, tu ci hai messi alla prova;

12b siamo passati per il fuoco e per l’acqua,
poi ci hai fatto uscire verso l’abbondanza” (Sal 66,12).

 

Così a Mosè è stato rivelato il Nome di Colui che è Rifugio: “Es 34,6Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, 7che conserva il suo amore per mille generazioni”. Mille anni come un giorno solo – un solo istante. Attraverso il ricco fluire delle generazioni.

 

Rifugio, Dio, per Mosè, ma non lui da solo: un “io” orante che – appena raggiunto dalla chiamata divina e fatto soggetto –  si espone, s’identifica immediatamente con un “noi”. “Di generazione in generazione”. Il noi delle generazioni che vengono e delle generazioni che vanno colma millenni. Precarietà, irrevocabilmente benedetta da Dio.

 

Sì, quella stessa precarietà umana, soffio – imprevedibile nulla –, tanto cara al Qoelet, qui è rivelata e assunta come luogo sacro del venire di Dio, quale Dio-Rifugio. A Mosè è stata rivelata questa incandescente solidarietà di popolo che ha in Dio la sua Origine, popolo uscito non dal suo grembo (“l’ho forse concepito io questo popolo?” Nm 11,12), ma dallo stare alla Presenza dell’uomo di Dio.

 

Anche qui, in San Minato al Monte, è stato, nei tempi, generato un popolo: le mura e gli ornamenti ne raccontano la storia. E, al volgere di eventi e generazioni in vivace passaggio di testimone, ecco che Dio si rivela quale Rifugio arrischiato attraverso i tempi, Dimora affidabile. Tu, per noi. Di generazione in generazione. Un fluire del tempo-che-genera, antitetico al tempo-che-consuma.

 

Il tempo della Promessa, irrevocabile, dischiuso all’umile, qui è custodito dai monaci. Per il popolo. Porta del Cielo.

 

Quale popolo, sul monte, Dio raduna?

Isaia, il “terzo” Isaia, l’Isaia del ritorno dalla deportazione, della delusione conseguente di ogni sogno di grandiosa restaurazione, abbozza per noi risposta:

 

1 Così dice il Signore:
“Il cielo è il mio trono,
la terra lo sgabello dei miei piedi.
Quale casa mi potreste costruire?
In quale luogo potrei fissare la dimora?
2Tutte queste cose ha fatto la mia mano
ed esse sono mie – oracolo del Signore.
Su chi volgerò lo sguardo?
Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito
e su chi trema alla mia parola
. (Isaia 66,1-2)

 

Rifugio, sì, è Dio: ma nella radicale differenza: Dio non abita spazi ma relazioni, tempo. E la per sua grazia la precarietà del giorno umano è resa dimora dell’eterno. È il mistero della alleanza di Dio, di generazione in generazione, a partire da Abramo: “vedi che io sono nulla!”, esclama lui. “Io sono tuo scudo”, promette il Signore Dio ( cf Gn 15,1ss) a lui, e in lui a tutta la sua discendenza.

 

(Aurora)

 

Ridisegna il tempo, questa differenza abissale, anima dell’alleanza: crea l’impossibile riparo nella radicale esposizione, gli imprime un ordine. Instaura – a origine dell’ordine – una temporalità aurorale, una luce splendidamente attestata in San Miniato al Monte. Un ritmo, ai tempi e ai momenti. Mille anni, come un giorno.

 

“Al mattino fiorisce e germoglia / alla sera è falciata e dissecca” (Sal 90,6)”. Un mattino per fiorire, germogliare. E – a seguire –  il volare, il consumarsi di tempi, come soffio. In ammirabile sintesi.

 

Eppure. Prima del mattino, sta sovrana l’aurora. E il suo segreto, fino a che non giunga l’Ora. Il tempo aurorale della gratuita bellezza è il tempo generativo alla radice di questi mille anni, percepiti come un soffio. I monaci, lo sanno bene. È proprio il rapporto “nuziale” della notte di veglia con l’istante in cui si in stupore s’ammira il gratuito, fedele venire della luce, che genera: aiuta a conquistare il tempo, riscattandolo dal destino tragico di ridursi a “niente”. È tutto nell’aurora, il programma espresso nell’invito paolino a “redimere” il tempo (tempus redimentes: Ef 5,16; Col 4,5), riscattandolo dalla sua potenziale vacuità. L’opera bella dei monaci, antesignani del popolo, è questa. Vigilanti nella notte a spiare l’aurora. Salmodiando e intercedendo nell’amoroso scrutare, leggere i tempi.. È un attimo l’aurora, ma redime il buio della notte e riscatta il ripetersi – il consumarsi – dei giorni, dei secoli, dei millenni.

(L’ira)

Sì, perché la storia dell’umano conosce anche il venire dell’ira divina che arde e passa al crogiolo. La ribellione getta nel tempo che consuma. Pur se la sua ira dura un istante (Sal 30,6). La bontà, tutta la vita.

“Tu dici: “Indietro!” figli dell’uomo” (Sal 90,3).

È il tempo della ribellione nell’Eden; che si ripete nel deserto. L’ora della paura di affrontare l’ignoto della Promessa, tempo dell’auto salvazione. Incredulità all’arrischiata Promessa offerta dall’aurora. La ribellione produce limite, peccato, punibilità: quasi un niente, uno sgorbio malriuscito che getta vergogna. “Indietro!” Dio dice: come ad Adam nel giardino (Gen 3,23-24)…, come al popolo del deserto (Num 14,23). Ira, la sua, che è l’altra faccia, l’ombra della misericordia. Dura un istante: la sua bontà, tutta la vita (Sal 31,6).

 

“Indietro!” (Sal 90,3): drammatico comandamento, che – dall’inizio – segna i giorni dell’uomo, anche i nostri. «Tu, Adamo [cioè uomo], ritornerai nella terra donde fosti tratto, perché sei polvere e in polvere ritornerai» (3,19).

 

“Indietro!”, severo ordine che ripetutamente pare arrestare la storia umana. A scontare la ribellione. Ira dinanzi a ogni mercimonio dell’alleanza. Ira divina, principio di purificazione della storia attraverso la pazienza dei giorni cattivi. Guerre, inimicizie, violenza. Anche San Miniato, “Porta del cielo”, ridotto a fortilizio, ha conosciuto il tempo dell’ira – il lungo squallore. E ne porta lo stigma.

 

Il Signore manda indietro a vagare per il deserto, prima Adam e, nell’esodo, Mosè e la generazione che non ha creduto alla promessa. Per aprire una strada pura al “dopo”. Solo la generazione che viene vedrà la terra promessa: la generazione che viene, riscatta il tempo. Il rinnovarsi dell’erba è metafora della nuova generazione, innocente del rifiuto.

 

È così che il tempo – pur sempre breve – ritrova senso e tenuta solo nella fede alla Promessa custodita nel grembo dell’aurora.

 

A questo punto, il Salmo sfocia nell’invocazione istantissima: “insegnaci a contare i giorni!”.

 

Dunque, davvero una memoria fondatrice è qui decisiva, per entrare nella rivelazione del Salmo,  per elaborare questa «preghiera di Mosè, l’uomo di Dio», come preghiera per fare memoria di mille anni – un soffio. Una memoria troppo lunga: che eccede l’animo umano di una singola generazione: “di generazione in generazione”, e singolarmente in ciascuna, è Promessa che si compie..

 

“E giungeremo alla sapienza del cuore”. Insegnaci a contare, ché gestito da noi questo è compito soverchiante. Il contrasto tra la lievità del soffio e la grandezza dell’Eterno, oggi ci intriga. Non per niente, il popolo generato da Dio è la grande intuizione scaturita dall’esperienza dell’esilio, e del ritorno miserevole dalla deportazione.

 

Da qui nasce, potente a trapassare i secoli e i millenni,  il grido supplice, la preghiera solenne: “Insegnaci a contare i nostri giorni”. Non è forse questa invocazione il senso di San Miniato, “porta del cielo”, posta sul monte, alta su Firenze?

 

“Insegnaci” – ché noi non sappiamo. Non solo non li sappiamo contare, nel senso di riconoscerli limitati nel numero. Ma il Salmista, Mosè – l’uomo amico di Dio che con lui parlava bocca a bocca, l’uomo per il quale il morire avvenne in un bacio di Dio – chiede di essere ammaestrato nell’arte di gustare la preziosità dei giorni – “tutti i nostri giorni” – , di essere istruito a farne conto. Ad amare la via, con le sue soste; ad amare – ed è il massimo! – d’arrestare il proprio piede sulla soglia della Promessa.

 

Insegnaci a benedire, fermando il piede sulla soglia.

 

Insegnaci a contare i nostri giorni – non a farne contabilità. Nella Bibbia, contare è raccontare, cioè generare il senso – nella libertà che acconsente. È tornare su quanto abbiamo vissuto per inserire i singoli eventi in una gratuita mappa di senso, in una trama che non è solo soggettiva, ma ci colloca nell’orizzonte più ampio di una storia comune, d’un’alleanza. Imparare a contare i nostri giorni è scoprire che la singola vicenda umana sgorga da un’Aurora; è all’interno di un Dialogo ininterrotto, di una storia di salvezza – parte integrante della Grande Narrazione dell’umano.

Invece, sentiamo di avere i giorni contati – da modesti ragionieri! – quando perdiamo il contatto con la nostra storia, con il mattino e le notti, con gli eventi che ci hanno portato dove siamo, le radici che ci hanno alimentato e continuano a ;

Il salmo, che inizia il IV libro del Salterio, riscatta quella domanda lasciata aperta al concludersi del III Libro, nel salmo 89/88, il salmo che canta il dramma dell’Unto di Dio respinto e ripudiato: “perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?”. Questo nulla qui si rivela: è il Tu di Dio e in lui trova rifugio. Qui impariamo a contare e a cantare, a rendere grazie per la precarietà che innamora Dio.

 

Insegnaci a contare: a discernere l’Inizio e il Compimento e la misura. “Facci conoscere che siamo fatti di giorni”, così scioglie la traduzione di  G. Ceronetti.  Nel rifiuto di ogni visione gnostica del tempo. La buona finitezza, la benedizione del nostro nulla, ci fa stare dinanzi a Dio. Il tempo assume diverse dimensioni, in tensione dialettica e feconda di futuro: dal tempo ultimo dell’apocalittica a quello quotidiano dello scorrere della vita sulla terra: e – al cuore – l’evangelico “oggi”, il Tutto nel frammento, ne fa sintesi.

[Penso a san Benedetto, anche lui sul Monte, di Cassino, che nella notte guarda dalla torre. E l’occhio del cuore attraverso il raggio di luce – si dilata a comprendere i tempi, il mondo intero nella sua unità…]

Contare. Grazia originaria, appresa da Dio, nei primi sette giorni dell’universo. Non tutti uguali. Nessuno uguale all’altro, pur quando pieni di opere o vuoti d’ogni altra azione che la lode.

(Pregare)

Raccoglierli in unità, contro lo sfilacciamento dei giorni. Il peso specifico della luce e della notte, sera e mattino. Ebbene: pregare, è dimensione costitutiva dell’arte di contare i giorni. Per questo i monaci scandiscono i giorni  e le notti, di preghiera.

“Insegnaci a contare i nostri giorni!” (90, 12). Ecco come Dio è rifugio, non vano, a noi umani che viviamo gettati nel tempo.

Il compito è questo: imparare a comprendere che il tempo non esiste in funzione dello spazio, ma è esso stesso il “luogo” del venire di Dio. Così la fede è il concretizzarsi di tanti momenti di meraviglia. Che sfidano e rigenerano la precarietà.

La temporalità è uno sprofondare nel nulla, oppure è entrare – in pazienza – nella pienezza del tempo. L’eternità che si schiude all’umano è il tempo che torna alla propria Sorgente, arricchita di tutti gli impulsi dell’admirabile commercium  – il venire di Dio nella nostra carne.

Davvero una memoria istauratrice è qui decisiva, per entrare nella rivelazione del Salmo, per l’elaborazione di questa «preghiera di Mosè, l’uomo di Dio», come preghiera per fare memoria di mille anni. Una memoria, pertanto, che eccede l’animo umano di una generazione. Memoria che sfora sul passato e sul futuro: “Ritorna, Signore: fino a quando?!” (Sal 90,13). Supplica, domanda che perfora le notti, a S. Miniato come in ogni luogo dell’umano. “Insegnaci a contare”.

 

Saziaci al mattino e sarà la gioia

 

Nel conto dei giorni, esperienza originaria è il mattino, che fa seguito all’aurora. Il gratuito venire della Luce.

 

“Saziaci al mattino della tua grazia” – recita il salmo – e gioiremo per tutti i nostri giorni. Il mattino, che inizia a spuntare quando più fonda è la notte. È il tempo del ritorno. Il tempo del gratuito venire della luce.

 

“Sul far del mattino”: esperienza originaria dell’esodo, della pasqua (Es 14,27; Mc 16,2). Saziaci della grazia e attraverseremo ogni deserto, la prova. E sarà la gioia. Il tempo riscattato dalla sua furia di consunzione, grazie all’Inizio che vien gratuitamente, fedelmente incontro.

 

“Saziaci al mattino”: sovrabbondanza improvvisa, gratuita fedeltà che imprime il suo stigma, e ritma del tempo. È come invocare Dio: “Sorgi!”, è l’anima della preghiera. E sfida ogni notte.

 

“Saziaci al mattino”. Immagino cosa sia il mattino a respirarlo da S. Miniato al Monte, con i tratti visti dal poeta:

Mattina
M’illumino
d’immenso.
(Giuseppe Ungaretti)

E i monaci possono svelare al poeta che l’immenso è nel frammento dell’Appeso a legno come un malfattore che sorge radiosa Stella del mattino – il segreto di ogni aurora.

Qui nasce preghiera – un soffio esalato, appunto, dalla precarietà, da gola che trema. La benedizione del mattino mai abbandona la vita. Rinascere dall’alto, anche quando si è vecchi. Unica opera commisurata alla Bellezza, la preghiera è impronta mattutina della vita umana, per “avere un cuore” – senza il quale invano ci si affatica a contare i giorni.

 

Il senso fondamentale di questi mille anni, forse, sotto le alterne vicende, sta in quest’ininterrotto rigagnolo, fiume della preghiera. Tutto, in S. Miniato sul Monte, fa pensare che è il Luogo dove si attende, si scruta, si scorge e custodisce la grazia del Mattino – e la sua sazietà di luce.

ANTE DEUM STANTES NON SITIS CORDE VAGANTES:  SI COR NON ORAT INVANUM LINGUA LABORAT: “voi che state alla presenza di Dio non siate errabondi nel cuore. se il cuore non prega invano fatica la lingua”.

Preghiera, eterno. Precarietà gettata dinanzi alla Presenza, per la quale un istante vale come mille anni. Silenzio scavato. “Tra il fiore colto e il fiore donato, / l’inesprimibile nulla”. È la polarità che salva.  “Gioiremo”, perciò. Come scrive Ungaretti, l’essere umano è “incarnazione momentanea dell’ eternità”. “Il mistero c’è e col mistero, di pari passo, la misura” (G. Ungaretti, Ragioni d’una poesia).

 

“Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola” (E. Montale, Rebecca).

 

“Portami il girasole impazzito di luce” (Montale, Ossi di seppia). Gesù era attratto dai fiori di campo, da cui coglieva segno della passione di Dio per ciò che è un soffio, il segno della cura amorosa del Padre. È simbolo, il fiorire – che si rispecchia nella luce del mattino – dell’umano sbocciare come dono. E di ciò che è perché si dona – altrimenti non sarebbe – si deve aver cura. Così è Dio, il Dio di Gesù.

 

(In fine) L’opera nostra Tu compi

 

E dunque concludiamo: “Si manifesti ai tuoi servi al tua opera. Sia su di noi la dolcezza del Signore. Compi per noi l’opera delle nostre mani, donale forza” (Sal 90,14.17).

 

Anche la nostra vita, che vorremmo aver vissuto come ci si appassiona a opera d’arte, non ha in sé stessa la forza per durare in eterno, resterà incompiuta. “Non sta a te compiere l’opera, però non puoi sottrartene”, dicono i saggi di Israele (Pirké Avot II,21). Dobbiamo gustare contentezza di averne ricalcato soltanto una parte, un segmento. Piccolo frammento che porta il riflesso del tutto. Il grande Mosè non riuscirà ad entrare nella terra promessa – ma farà entrare tutti.

 

Per questo il monaco all’inizio della sua avventura riceve una promessa: «Il Signore porterà a termine l’opera iniziata in te» (cfr. Fil 1,6). E prega: “Conferma o Dio, la tua opera in noi” (Sal 68,29) riconoscendo che l’opera delle sue mani è solo obbedienza all’agire dello Spirito.

 

Questa è l’arte dei monaci, che da mille anni vivono appollaiati su questo monte, battezzato “porta del cielo”: non si sa se a custodire, o a esorcizzare la città dai suoi demoni. Oppure, a spalancarne gli orizzonti. Mai da soli, però.

 

Si racconta che ad Antonio eremita un angelo disse un giorno: “In città c’è uno che ti somiglia. È di professione medico, dà il superfluo ai bisognosi, e tutto il giorno canta il trisagio degli angeli” (Antonio 24). Il monachesimo delle origini coglieva l’affinità tra il monaco e ogni cittadino credente. E ne faceva, spezzando ogni esclusiva, l’uno per l’altro annuncio di Evangelo. La preghiera e la prassi dell’amore sono i punti originari di contatto tra monaco e cittadino.

 

I momenti del tempo sono raggi dell’eternità. E la meta non è l’intemporalità, ma la perseveranza, la tenuta del martire. La contemporaneità al Dio di Gesù. Questo è il messaggio di S. Miniato al Monte. Anche oggi, oggi di nuovo. È l’invocazione che apre i giorni dell’ira a nuova speranza.

 

“L’opera delle nsotre mani, tu rafforza”. Paolo traduce, là dove annuncia la risurrezione: “Sapendo che la vostra fatica nel Signore, non è vana” (1 Cor 15,58). Chi riscatta l’opera umana dalla vanità? È lo stesso “amore” che ci sazia al mattino; lui in persona, quella “gioia” grandissima (Mt 2,10; Gv 20,20), da non crederci (Lc 24,41). In lui, la Stella del mattino, la vanità dei giorni si fa parabola dell’ amore forte più che la morte. Non opera nostra, ma opera del Signore – in noi e per noi.

Sia dunque su di noi la bontà del Signore, la sua tenerezza; così sarà feconda anche l’opera minuscola della nostra vita.

Dai segni delle ferite che rimangono in eterno nel suo corpo glorioso sappiamo che la caducità riceve stabilità, l’indigenza diventa gloriosa e l’insensato diventa significante – tutto è immerso nella luce di Lui, della grazia mattutina.

 

Ecco. L’altrove che il monaco addita standovi come alla soglia (“Porta del cielo”), è in ogni caso una dimora. Ma una dimora che si cerca, quasi una tenda sempre da capo spostata; non però a fuggire dai legami, bensì alla ricerca della città dall’alto (Eb 11,10). Non fatta da mano d’uomo. Non è fuga dagli uomini, ma da quella costruzione degli uomini compromessa dalla tradizione di Babele. E ritorniamo all’Inizio.

“Rifugio, Tu o Dio, per noi”. La prossimità, in questa dimora-come-porta, è affidata radicalmente al suo profilo celebrato e all’estrema compassione – e non ad affinità elettive: è fraternità confessante e cerca conferma passando per il cielo e immergendosi negli abissi della terra. Liturgia e pietas. Proprio a misura in cui la fraternità passa per il cielo, e per l’abisso della terra, il monastero appare segno, rimando alla città celeste. Spazio sacro perché la vita possa avere luogo, abbia la sua misura e il senso.

Monastero e città. Un binomio rovente che il Salmo c’insegna a coniugare. Dall’origine fu così.

Ma di questo – il chronos è trascorso – si parlerà meglio altrove, in altro tempo, opportuno….

(se rimane tempo…)

Il movimento originario di Antonio, padre dei monaci, fu di uscire dalla città. Prima, semplicemente stabilendosi ai margini, ma poi – per progressive tappe di allontanamento – la sua divenne una vera e propria fuga. Non la fuga superba del puro, ma la fuga immobile del cercatore di Dio. Mai immemore dei suoi fratelli.

Così parla in lui il Salmo: “Come una bestia dinanzi a te … il mio bene è stare vicino a Dio, per narrare le sue opere / presso le porte della città”. (Sal 73[72],28).

Sta di fatto che tra monastero e città, fin dall’origine del monachesimo cristiano e attraverso le epoche più diverse, il rapporto si è posto in forma dialettica. Uscita e riguardo. Fuga e ritorno. Contestazione e profezia della nuova città – che “scende dal cielo”. Ma sempre nella forma di una reciprocità vitale.

Il binomio non è sempre stato coniugato alla stesso modo. Nel medio evo. Nella contro riforma. Al maschile e al femminile. Oggi, si vanno elaborano nuovi, diversi paradigmi, in tensione dialettica.

Ma – nel contesto dell’indefinibile città della crisi –  la dialettica  assume contorni nuovi, che a malapena siamo in grado di intravvedere. Forse la vista riceve luce se ci teniamo in contatto con le origini: le comunità monastiche delle prime generazioni vivevano per molti aspetti una forma di legame ecclesiale e civile simile a quello attuale. Tra fuga e testimonianza martiriale, confessante: testimonianza di affezione all’Unico necessario.

I confini, per molti aspetti oggi sfuggenti, tra le soglie del monastero e le mura della città, trovano nitidezza e punto di congiunzione in un solo tratto: il ritorno dell’estrema compassione che crea – nella nudità necessaria – legame nuovo, poverissimo, non virtuale ma corporeo. Prossimità paradossale. Stranieri residenti. Stabilità sulla soglia.

L’estrema compassione porta Gesù a inaugurare la propria missione mettendosi anche lui in fila tra coloro che chiedono conversione (Mc 1,9), radunando il popolo ai margini. Là dove vivono monaci e monache, ma anche tanti altri miseri. Raccoglie in preghiera. Ripropone il deserto. Forse che nuovamente dal deserto nasce la città? È difficile dirlo. Si può sperare.

Appartenenza ed estraneità disegnano i tratti paradossali di questi abitatori dei margini.

Dimora come una tenda: sempre da spostare altrove rispetto ai luoghi della auto salvazione. Decentrati dalla piazza, pure additano la “nuova” communitas dei legami. Stabili e affidabili. Additano dimorando in ascolto: nella preghiera, a monte di ogni altro raduno. Gemito di intercessione e di lode; nella ricerca di leggere e di una conseguente narrazione intelligente della Sacre Scritture; nella tessitura di legami ospitali. Laboratori di umanità attraverso la narrazione di parabole di vita. Questo è il terreno di nascita dell’estrema compassione.

Eppure il monastero è un polo costante di richiamo per i cittadini: in principio e oggi ancora. Nell’ora del martirio- i monaci trappisti di Tibhirine fanno scuola –  diventa luogo dell’ultima vocazione.

Ai margini della città, stabile soglia all’ospite, il monastero custodisce per trasmettere – saprà restituirla? – istante per istante, l’anima della città.

 

La fotografia è di Mariangela Montanari

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