Omelie

27 aprile 2018: Millenario di San Miniato al Monte. L’omelia del Cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo metropolita di Firenze

 

Abbazia di San Miniato al Monte

27 aprile 2018

Celebrazioni per il millenario della Abbazia

Apertura della Porta Santa

 

[Ap 21,9b-14; Sal 121; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-6]

OMELIA DEL CARDINALE GIUSEPPE BETORI, ARCIVESCOVO METROPOLITA DI FIRENZE

 

Caro abate Bernardo, cari monaci, cari fratelli e sorelle, siamo qui a celebrare i mille anni della fondazione di questa basilica e della sua abbazia per volontà del vescovo fiorentino Ildebrando. Con la sua “charta ordinationis”, egli ricostituiva una comunità monastica sotto la guida di un abate al servizio della memoria del santo martire Miniato, dotando l’abbazia dei beni materiali che ne dovevano garantire la sussistenza e indicando le sorgenti spirituali a cui attingere per il servizio ecclesiale che veniva loro affidato.

Con questa celebrazione diciamo grazie a Dio per ciò che questi mille anni di vita sono stati per la Chiesa e la città di Firenze. E vogliamo riflettere sulle fondamenta su cui San Miniato si è edificata e sulle modalità con cui attraverso i secoli si è mantenuta fedele a quelle fondamenta in rapporto ai bisogni dei tempi.

La prima radice di questo luogo è ovviamente il martirio di san Miniato, un principe armeno che, secondo la tradizione, fu decapitato nel corso della persecuzione disposta dall’imperatore Decio verso l’anno 250 e avrebbe scelto questo monte come sua ultima dimora, salendo fin qui portando in braccio il proprio capo. Il fondamento di quanto oggi celebriamo è dunque la fede in Cristo testimoniata fino al dono della vita. Due particolari meritano di essere evidenziati nella vicenda di san Miniato. Il primo è la provenienza del martire da un lontano paese d’Oriente, come fu per non pochi tra i primi cristiani fiorentini di cui ci parlano le antiche sepolture rinvenute a santa Felicita; siamo così invitati a pensare le nostre radici cristiane nell’orizzonte dell’incontro tra i popoli e della pluralità culturale, un tema oggi così attuale e in attesa di risposte convincenti a livello ecclesiale e ancor più sociale. L’altro elemento che si evidenzia nella leggenda martiriale è il gesto con cui il santo raccoglie il capo strappato dal corpo e attraversa la città fino a questo monte, dando forma plastica alla funzione testimoniale che sconfigge il potere della morte: il volto del martire continua a interrogare con il suo sguardo e a dire come la forza del Risorto sia principio di vita inesauribile per i suoi discepoli fedeli.

Tutto questo compresero i nostri padri, che da subito segnarono con la loro devozione il luogo della sepoltura del martire, strutture che dovettero subire processi di decadimento nel tempo se già sul finire dell’VIII secolo l’imperatore Carlo Magno si interessò per il restauro qui di una chiesa. Poco più di due secoli dopo questa chiesa era di nuovo in rovina, al punto da suscitare l’intervento del vescovo Ildebrando, sostenuto dall’imperatore del tempo, il santo Enrico II, e con il concorso del clero e del popolo fiorentino, che si unirono a lui nel disegno di rinascita che oggi celebriamo.

Fondata sulla fede e sul martirio, affidata alla preghiera e alla vita comunitaria dei monaci, San Miniato ha vissuto vicende sempre più alterne nei secoli. Quelle legate alla vita religiosa, condussero la comunità monastica dipendente dal vescovo a un degrado che ne giustificò l’abbandono da parte di san Giovanni Gualberto e lo portò alla fondazione dell’abbazia di Vallombrosa, un decadimento che poi comportò l’avvento dei monaci Olivetani per riportare qui vigore spirituale e esemplarità di vita comunitaria. Forte rimase sempre il legame dell’abbazia con la città, ma, se alle pagine gloriose si possono attribuire i tempi in cui si trasformò in fortilizio a difesa della libertà della Repubblica fiorentina, poi però, allontanati i monaci dal potere granducale, proprio a causa del legame con le istanze repubblicane della città, essa divenne spazio per varie necessità secolari: guarnigione, lazzaretto per appestati, rifugio di mendicanti, casa di esercizi spirituali, cimitero. I monaci Olivetani sono tornati qui da meno di cento anni e Firenze è loro vivamente grata per il servizio reso in vari modi alla comunità ecclesiale e cittadina.

Le vicende umane di San Miniato sono complesse e non tutte gloriose. Eppure lo spirito di questo luogo ha attraversato i secoli e continua a rappresentare per Firenze come uno specchio su cui meditare a riguardo della sua identità. Perché non è senza significato che se la rilettura secolaristica che di Firenze fu tentata nella seconda metà dell’Ottocento, sventrandone il cuore popolare e creando uno sguardo, quello dal piazzale qui sotto, che ne recide dall’orizzonte questa basilica, resta un fatto che lo sguardo più completo di Firenze lo si ha da questo luogo, materialmente e soprattutto spiritualmente, perché una città non è un agglomerato di edifici e attività, ma un tessuto di relazioni umane e quindi di spirito; una città ha un anima. E l’anima di Firenze si riflette come in uno specchio nell’anima di San Miniato, luogo di bellezza, di incontro, di comunione, di apertura verso l’oltre e l’Altro. “Haec est porta coeli”, “Questa è la porta del cielo”, troviamo scolpito sulla soglia della Porta Santa: un luogo, San Miniato, che è una porta che conduce al mistero di Dio e dell’uomo, che ne è l’immagine.

L’anima di questo luogo la si coglie solo in rapporto al mistero divino e a come esso si proietta sull’armonia, la pace, la bellezza del mondo. Ci rivolgiamo allora a come la parola di Dio ci ha presentato oggi questo mistero, a cominciare dalla pagina dell’Apocalisse in cui la Chiesa nel compimento della storia viene presentata nella forma di una città, la Gerusalemme celeste, «risplendente della gloria di Dio» (Ap 21,10), colma cioè di una presenza che comunica pienezza di vita; una città che raccoglie tutto il popolo di Dio, nell’articolazione delle sue tribù, e che si mostra saldamente ancorata nelle sue mura, fondate sugli apostoli e quindi sulla loro testimonianza, ma al tempo stesso pronta con le sue porte ad accogliere quanti vogliono entrare nella sua comunione. Un’immagine che anzitutto ci dice che la Chiesa si modella nella forma di una città, come articolata convivenza di uomini e donne convocati a vivere la comunione che si irradia dalla sorgente stessa dell’amore che è Dio, avendo come riferimento la parola di lui, trasmessa e garantita dalla testimonianza apostolica; una comunità che ha una precisa identità, ma non è chiusa ed escludente. Questa immagine di città celeste deve però ispirare anche la forma della città storica: anche la convivenza sociale ha bisogno di una sorgente che ne nutra lo splendore, di saldezza di identità ma anche di apertura e volontà di incontro, di un magistero che non sia esposto alle derive ideologiche ma alla concretezza della testimonianza. Direbbe La Pira: bellezza, purità e pace celeste!

A dare ulteriore alimento a questa visione provvede l’apostolo Pietro che, nella sua lettera, ci ha ricordato come la comunità dei discepoli di Gesù è un tessuto di «pietre vive» (1Pt 2,5) che si edificano come presenza della santità di Dio nel mondo. A legare questo edificio è Gesù stesso, la «pietra d’angolo» (1Pt 2,6), lui che è passato attraverso il rifiuto degli uomini, che lo hanno considerato uno scarto e che ora si trovano giudicati e posti in crisi dalla sua presenza che illumina in modo nuovo la storia. Lo scarto degli uomini è divenuto la scelta del Padre e la fede in lui decide della nostra possibilità di stare in piedi e di camminare nel tempo, senza inciampare, senza cadere, senza crollare. Il riferimento a Cristo ci dice che non basta una vaga spiritualità, ma occorre il confronto con una storia reale, quella dell’esistenza del Figlio di Dio tra noi consumata nella Pasqua, quella degli apostoli che ne trasmettono la memoria, quella dei martiri che ne testimoniano la fecondità, quella della vicenda umana del nostro tempo, in cui siamo chiamati ogni giorno a scegliere in ciò che è scartato dagli uomini il luogo della possibile epifania della potenza di Dio, della risurrezione dell’umano. Tutto questo, continua ancora l’apostolo Pietro, nella forma di un’esistenza sacerdotale, capace di compiere «sacrifici spirituali graditi a Dio» (1Pt 2,5), cioè di una umanità che si apre a Dio e si offre a lui come un ponte verso i fratelli, perché egli possa incontrare anche le loro vite e trasfigurarle. Ma ci è chiesto anche di mostraci come «popolo di Dio» (1Pt 2,10), nella prospettiva di un tessuto di relazioni fraterne, non un gruppo elitario che si separa dal mondo, ma un popolo che percorre la storia come testimone dell’eterno.

Da ultimo, nella pagina del vangelo di Giovanni, Gesù ci ha invitati ad oltrepassare con lo sguardo questo nostro tempo e a proiettarci verso ciò che ci attende nell’eternità. La chiese fatte di pietre sono il segno della Chiesa costituita dai credenti, ma ciò che appare nella storia è solo il preludio della Chiesa escatologica, del posto che Gesù ha preparato per noi, verso il quale ci invita a prendere la via. La domanda di Tommaso è anche la nostra: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5). Dove Gesù sta andando, Tommaso lo scoprirà tra breve, quando lo vedrà percorrere la strada verso il Golgota, per giungere su una croce a quella compiuta adesione all’amore del Padre che, nella risurrezione, lo condurrà a ricongiungersi a lui da cui egli era venuto. E se il Padre è la meta a cui dobbiamo tendere anche noi, Gesù precisa a Tommaso e a noi che quel Dio, che è la pienezza della verità e della vita, risplende sul volto del suo Figlio, che pertanto può dire: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me» (Gv 14,6). La soglia della Porta Santa che abbiamo attraversato aprendo questa celebrazione, e che resterà aperta in queste celebrazioni millenarie, ci rinvia alla porta che è Gesù stesso: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). Da lui parte la via che ci conduce a Dio, in cui solo potremo trovare la verità della nostra esistenza e la sorgente della nostra pienezza di vita.

Possa essere San Miniato per Firenze, in questo anno giubilare e sempre, una porta, una via che, con la sua luce spirituale, aiuti ogni giorno questa città e nutrire una profonda aspirazione alla verità e alla vita, per delineare le fattezze di un volto di bellezza e di unità, di carità e di speranza, di accoglienza e di pace

 

Giuseppe card. Betori

Arcivescovo di Firenze

 

 

 

ALTRO MATERIALE

 

Lo aveva ben compreso Giorgio La Pira, che lo descriveva così: «Quale è il mistero dei tetti di Firenze? […] Provatevi a guardarli, meditando, da Piazzale Michelangelo e da S. Miniato: è vero o non che essi formano, attorno al duplice centro della Cupola di S. Maria del Fiore e della Torre di Palazzo Vecchio, un “tutto” armoniosamente unito, quasi un sistema di proporzioni geometriche ed architettoniche che esprimono, come il “sistema stellare”, ordine, bellezza, preghiera, riposo e pace? Tutti coloro che si fermano a contemplare, anche per un attimo, questo spettacolo di ordine e di bellezza, non possono sottrarsi a questa impressione “incantatrice”: sono come “fermati” da questo autentico “mistero architettonico” – grandioso e piccolo insieme – che appare al loro sguardo ed attraverso il quale, in certo senso, si specchia e traspare la città del Cielo. […] Il “mistero dei tetti” di Firenze è tutto qui: essi sono, con la Cupola, quasi un “sacramento” che si fa specchio e diffusore della bellezza, della purità e della pace celeste!».

 

Un altro spirito eletto che amò questo luogo, il poeta Mario Luzi, riferendosi proprio alle parole Di Giorgio La Pira, così cantava:

«Ricordate? Levò alto i pensieri,
stellò forte la notte,
inastò le sue bandiere
di pace e d’amicizia
la città dagli ardenti desideri
che fu Firenze allora …
Essere stata
nel sogno di Lapira
“la città posta sul monte”
forse ancora
la illumina, l’accende
del fuoco dei suoi antichi santi
e l’affligge, la rode,
nella sua dura carità il presente
di infamia, di sangue, di indifferenza.

Non può essersi spento
o languire troppo a lungo
sotto le ceneri l’incendio.
Siamo qui per ravvivarne
col nostro alito le braci,
ché duri e si propaghi,
controfuoco alla vampa
devastatrice del mondo.
Siamo qui per questo. Stringiamoci la mano,
sugli spalti di pace, nel segno di San Miniato».

Fonte: http://www.diocesifirenze.it/pls/diocesifirenze/bd_edit_doc_dioc_css.edit_documento?p_id=956295&p_pagina=23930&rifi=guest&rifp=guest&vis=4

La fotografia è di Mariangela Montanari

 

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